lunedì 29 ottobre 2007

E se poi la chiave me la perdo per strada?

E poi è così facile lasciarsi prendere dal cliché.
Basta essere un po’ più stanchi. Un po’ più distratti. Più disponibili a inserire il pilota automatico.
Et voilà. E’ fatta. Te lo sei perso per strada.
O forse non è così. Forse è lui che ha mollato la tua strada. Sente che non è buona, che non è fatta per lui. E se ne va.
E’ successo, la settimana scorsa. Mi sono lasciata prendere dall’ansia del risultato. Dalla necessità (mia) di vedere prodotti. Dal bisogno (mio) di evidenza che lui stia imparando. In fondo sono qui per insegnargli, mi sono detta. Mica per essere la sua compagna di giochi. Non devo fargli perdere preziose occasioni di apprendimento.
Tutto molto vero.
Sono qui per insegnargli.
Ma così ragionando ho perso di vista lui.
Ho incominciato a puntare al prodotto (dev’essere una deformazione di questi giorni. Sono sempre lì che penso a produrre. Insegnami Riccardo. Mostrami la via per tornare al nocciolo), a spingerlo a finire anche quando lui non ne aveva più voglia.
E giovedì, finalmente, gli sono girate le palle.
Era ora.
Ho passato il fine settimana a meditare.
E oggi ho ricominciato dal punto zero.
Da lui. E da me.
Dalla relazione.
L’ho visto guardarmi negli occhi. E cercarmi la mano, in fila, dopo la ricreazione. E, prima di entrare in classe, fermarsi per un attimo a strofinarmi addosso la schiena come un piccolo orso.
Finalmente, cacchio, sei tornata. Cosa ci voleva a capire?

domenica 28 ottobre 2007

La miniera.


La miniera al tramonto. Quella luce di caramello sulle terre rosse. Quel colore di rosa e rosolio, quell’aria dolce che sospira e fruscia fra le falci dell’eucalipto. Il colore tenero del cielo, la casa di mattoni rossi contro il nero del ferro, il giallo dello zolfo, il bianco del gesso. Tutta quella pace e quel silenzio. Gli arbusti secchi e imbalsamati sulle balze abbandonate rosse di ossidi di ferro.
Ah dio delle miniere. Dio dell’aria dolce e azzurra. Dio delle case arrampicate intorno al porto quieto. Dio dell’acqua tenera e delle barche bianche. Dio dei cactus e degli eucalipti.

mercoledì 24 ottobre 2007

Una storia ai delfini, di MariaGiovanna Luini


Oggi recensisco il bel libro di MariaGiovanna Luini "Una storia ai delfini" , ed. Creativa, sul sito internet Kult Underground. Ve ne anticipo qualche riga:


Maria Giovanna Luini esordisce con un romanzo breve, “Una storia ai delfini”, ed. Creativa, e decide di farlo confrontandosi faccia a faccia coi temi “grossi”, quelli davvero rischiosi, quelli che incutono timore a ogni scrittore, perché è tremendamente facile fare della retorica quando si decide di toccarli. L’amore, la morte. Il dolore, la malattia. La scrittura.
La via praticata dalla Luini attraverso queste terre pericolose è nitida, nuda, scarna. L’autrice sceglie come strumento una lingua lineare, che nomina i fatti senza eccessi, una lingua dai toni “timidi e discreti”, come efficacemente nota Umberto Veronesi nella sua intensa empatica introduzione.
La storia di Lucia, voce narrante protagonista, ci viene raccontata con intensità trattenuta, compressa, come filtrata attraverso il cristallo spesso di una boccia di vetro. La trama intreccia alcuni snodi con la vicenda autobiografica dell’autrice (l’amore per il mare, la professione contemporanea di chirurgo e scrittrice, la morte della cara amica scultrice), e questo ci fa immaginare una grande densità emotiva della materia che la Luini tratta. Eppure la lingua riesce a rimanere fedele a questa rigorosa castità stilistica e lessicale, nell’intento di aderire il più possibile al ritratto che Lucia dipinge di se stessa: prima bambina precocissima ma quasi autistica, capace di leggere i Promessi sposi in prima elementare ma anche dedita a ”trascorrere le ore di ricreazione a riflettere sull’esistenza mentre il resto del mondo si divertiva a giocare”, poi adulta dalla emotività intensa ma interrotta, bloccata prima di riuscire a manifestarsi verso il mondo, prigioniera di “un’identità che non solo non avevo chiesto ma che per troppo tempo è stata solo il riflesso di ciò che gli altri volevano da me” . L’itinerario di iniziazione attraverso cui Lucia dovrà passare, e che la vedrà spogliarsi piano piano di ogni possesso, anche quello fondamentale connesso con gli affetti più profondi, la porterà infine a trovare nella scrittura il mezzo che le permette di forare il cristallo della boccia di vetro, per portare fuori quel che dentro la infuoca...

Il resto su Kult Underground.

martedì 23 ottobre 2007

Nebbie on the ROC...

Sulla non ancora chiarita vicenda del ROC, ossia il costituendo Registro degli Operatori di Comunicazione, e sull'eventuale obbligo venturo per blog e siti internet di sottostare a regole burocrazia tasse e controlli, segnalo una serie di interventi in rete che cercano di fare un po' di luce nella nebbia: Bloomsbury di Davide Fent, Letteratitudine di Massimo Maugeri, Lipperatura di Loredana Lipperini. Vi segnalo infine la coraggiosa (e per me assai dolorosa) presa di posizione di Francesca Mazzucato, che ha deciso di ridurre drasticamente l'attività del suo bellissimo blog letterario Books and other sorrows fintanto che non sarà fatta chiarezza sulla vicenda Mastella - De Magistris. Mi auguro con tutto il cuore che Francesca torni sui propri passi, perché non nutro molta fiducia nella capacità italiana di diradare le nebbie. E perdere la voce di Francesca mi parrebbe aggiungere un grave danno alla beffa che già stiamo subendo.

venerdì 19 ottobre 2007

Scrivere. Che roba è?

La struttura.
Per anni ho lavorato sulle sensazioni. Ho scoperto vie nuove, molto ricche, piene di germi pronti a germogliare, soprattutto grazie a Bacon e alla pittura in generale. Ho aperto parti di me che non conoscevo, e mezzi nuovi di cui non immaginavo l'esistenza. Il diagramma, trasportato dalla pittura alla parola, ha grandi potenzialità. Si tratta di vedere come può funzionare in una struttura più ampia, in qualcosa di lungo e articolato.
E qui sta il punto, ora.
La struttura.
E' quello che mi manca. Lo so. E con Cezanne so che le sensazioni da sole non bastano. Ci vuole anche la geometria. O con Bacon, non basta il diagramma. Bisogna uscire dalla catastrofe. Limitare il diagramma a parti ben precise.

Il diagramma è ciò che ti permette di saltare il linguaggio. Di uscire dalla gabbia imperfetta del linguaggio, che nomina senza poter toccare, che separa, allontana dalla verità. Che aliena. Proprio perché fa oggetto di ciò che nomina, lo separa da te.
La catastrofe del diagramma opera un salto radicale, lacera veli, strappa codici, contorce il senso codificato. Ti butta oltre il codice. Oltre il linguaggio. Tuffa le mani nel mondo. Tocca senza parlare.
Catastrofe salvifica che rivela il cosmo. Lo svela dagli strati cornei in cui il linguaggio lo ha imprigionato. Strappa, lacera, taglia, macella le convenzioni.
Come un bambino. Il cosmo come un bambino. Toccare il cosmo con le dita, assaggiarlo con la lingua, spalmarlo sulla pelle.
Come un bambino.
Il cosmo si rivela.
Riconoscere le sue enormi vaste leggi. La struttura che nasce proprio da lì. Struttura possente e semplice, come grossi muri di pietre e sasso.
Come un bambino.
Tornare al raccontare, ma con la sapienza di lacerare il velo.

Come conquistare una struttura. Una struttura che abbia senso ora. Qualcosa che funzioni in questi giorni arsi di inizio millennio, in queste terre frantumate dove ogni pietra miliare è stata presa a martellate fino a ridurla in polvere.

Ritornare indietro.
Tornare alle origini.
Tornare a Boccaccio, a Dante, a Shakespeare. Tornare ai Greci.
Tornare alle origini. E ripartire da lì.

Boccaccio.

Ci si dimentica che tutta l'armonia e il cosmo composito di Boccaccio nascono dalla peste.
La peste apre il libro, coi suoi gavoccioli e coi becchini, con le fosse comuni, il lezzo della morte, i cadaveri ammucchiati fuori dalle porte, le donne che aprono le loro nudità agli uomini nella malattia, le macchie nere sulla pelle e il sangue dal naso.
L'origine e la legittimazione di tutto il libro sta lì. In quell'odore acre di malattia e di cadavere.
E da lì, proprio dall'occhio di quel ciclone furioso e senza discernimento, che uccide grandi, mezzani e piccioli insieme coi porci, proprio dal colmo dello scempio, nasce un ordine armonioso, ingemmato, sereno, liquido e limpido come le acque delle fontane attorno a cui la compagnia si raduna.
Acqua attraverso cui ti tuffi nel mondo, nuoti in tutte le direzioni, e vedi ogni cosa chiaramente.
Questa visione chiara, questa licenza, per così dire, di vedere, e di nominare senza reticenze, è data dalla peste. La rottura di ogni regola e di ogni velo conveniente, e convenzionale, è legittimata dalla peste. Si può parlar forte e chiaro, in mezzo a tanto scempio. Non ha senso nascondere ciò che è così chiaro. Così evidente.
Ma anche l'ordine nasce da lì. La ricerca accurata, tenace, pervicace di armonia, simmetria, quiete, bellezza. Proprio dal cuore del caos e del disfacimento.

Avere il coraggio di cercare ordine e armonia in mezzo al caos e al disfacimento.
Avere il coraggio di guardare bene in faccia morte e orrore e cantare la gioia e il cosmo.
Avere il coraggio di uscire dalla catastrofe.
Vedere il cosmo.
Ciò che scompare, ciò di cui non siamo più capaci di vedere i contorni.
Il cosmo. Qualcosa di ordinato secondo sue enormi leggi. Secondo leggi di cui noi siamo solo una piccolissima parte. Saper vedere questo, che sta diventando invisibile agli occhi, alla mente, al cuore.
Non dimostrare. Solo mostrare.
Solo cantare.

Sfuggire alla tentazione di voler dimostrare qualcosa.
Non voler trasmettere nessun messaggio.
Solo far da prisma che scompone la luce in tutti i suoi colori. Solo far da acqua limpida che mostra ogni suo pesce.
Solo cantare.

E poi bisogna avere il coraggio di raccontare una storia.
Il coraggio di raccontare un filo, di seguirlo lungo l'arazzo dall'inizio alla fine.
Uscire dal caos.
Boccaccio ti può insegnare. Le sue storie sono gemme in una collana.

Boccaccio. Armonia e bellezza. Soave bellezza, quieta e ordinata.
"Ma per ciò che le cose che sono senza modo non possono lungamente durare..."
"Acciò che io prima essemplo dea a tutti voi, per lo quale di bene in meglio procedendo, la nostra compagnia con ordine e con piacere e senza alcuna vergogna viva e duri quanto a grado ne fia..."
"Dalle quali cose, perciò che belle e ordinate erano, rallegrato ciascuno..."

Boccaccio. La lingua.
Preziosa come una gemma.
Eppure dotata di ogni registro, dal più alto al più basso, giù giù fino all'osceno.
Ah, imparare quella lingua ricca e sonora, quella pasta di mandorle che riempie la bocca, quel soffitto affrescato di festoni di limoni e frutta, e l'odor di cucina e il tanfo delle stanze buie e delle latrine, e poi le limpide chiare acque dei giardini e delle fontane, e il sesso goduto senza colpa, come un dono di dio, festoso e gioioso, fatto di carne e pelle calda profumata di olio di rosa.

Imparare a usare ogni registro. Ogni parola, antica e nuova, piegarla come ferro caldo all'uso voluto.
E, qui e là, lasciare che le parole viaggino per conto loro. Che invadano ogni cosa, a festoni rubescenti.
Ma attenta. Che chiunque abbia occhi possa ben vedere.

Cos'hanno in comune Boccaccio, Shakespeare e Melville.
Che ognuno di loro ha usato strutture già note da tempo piegandole con libertà e forza in modo completamente nuovo.
Il più libero di tutti è forse Melville, che spazia da un genere all'altro nel giro di una pagina, dall'enciclopedia alla commedia alla tragedia al salmo biblico. Totalmente, completamente libero da ogni obbligo. Capace di riutilizzare i mattoni ricevuti da altri per costruire un edificio totalmente nuovo.
E poi Shakespeare.
La totale libertà di raccontare ogni cosa proprio com'è. Viva. Proprio così com'è. L'uso di una lingua musicale eppure pietrosa, eppure densa di corpo, eppure attaccata alle cose, facente parte delle cose, tutt'uno.
L'audacia. Raccontare cose mirabolanti, grandi, enormi, di cui non si scorgono i contorni, eppure saperle nominare. Senza diminuirle, senza ucciderle. Perché mostra, e non dimostra. Perché lascia a ciascuno la propria grandezza e la propria umanità. Tutte le sfaccettature, i meandri bui, le lame di luce tagliente.
La lingua. Quella cadenza di musica, le parole grosse e oscene, le parole musicali, i gioielli. Ci sono veri gioielli nei suoi versi, incastonati all'improvviso in una riga. E poi il coraggio di nominare ogni cosa. In tutta la sua granitica, carnosa, pastosa essenza. Terribile essenza. Magnifica essenza.
Ogni cosa proprio così com’è. Non come dovrebbe essere. Proprio com’è.
Non so cosa sia la mia scrittura ora.
Sento che deve essere dentro alle cose.
So che deve toccare le cose con sincerità. Ma anche con grande semplicità.
Che chiunque abbia gli occhi possa ben vedere.
E nello stesso tempo deve avere un filo conduttore. Un corso, una via. Non deve espandersi senza forma, in ogni direzione, ma deve seguire la strada che le è prefissata.
Deve esserci una struttura. E insieme la vita. Come le ossa sotto la carne.

Non so cosa sia la mia scrittura ora.

lunedì 15 ottobre 2007

Giusi. 2

La mattina dopo era una mattina abbagliante. Un sole autunnale basso e radente, e tagliente di luce acutissima, che accarezzava tutte le cose e le rivelava senza scampo, minuziose, piccolissime.
Il viaggio dietro al feretro è stato così strano. Quella strada che non riconoscevo, gratificata di quella luce così diversa da sempre, così inclinata, e insieme così potente. I colori erano diversi, le luci, le cose, i pini, le colline, ogni cosa diversa e bellissima. Il mare, a destra, blu profondo ogni tanto dietro le colline, contro l’azzurro tenero del cielo.
Il viaggio in nave coi parenti, e con la sensazione di essere una di famiglia. Una di casa.
E uscire dalla nave dentro quella luce dorata, sparsa sui muri delle case come una lastra gialla, impregnata nelle molecole dell’aria azzurra, appoggiata su ogni singola foglia, inclinata a metà, frugante fra i rami, cercante fra i cespugli del bosco a svelare il mare là sotto, l’azzurro dentro il buio dei lecci.
Dio che bella l’isola, che bella, una bellezza mozzafiato, sconvolgente e di sorpresa, una bellezza inaspettata e schiaffeggiante, urlata, graffiante, luminosa di quella luce morente e cantante di tardo autunno.
Che bella che bella che bella che bella.
Dietro la bara, in fila. Micol e Stefano, Stefania di Giulio, Giuseppina, zio Elvio. Corteo di parenti. Curva curva per quella strada così nota che a pensarla mi si stringe il cuore di nostalgia.
Lo spazio aumentava. Mano a mano, l’orizzonte si allargava a contenere il mondo.
L’isola era lì, e era quello che era. Era una meraviglia. E c’era. C’era, e anche lei c’era, e questo fatto era qualcosa di meraviglioso. L’orizzonte era così vasto, e comprendeva lei e questa luce che piano piano virava al violetto mano a mano che si abbassava sull’orizzonte. E non c’era contraddizione né perdita.

domenica 14 ottobre 2007

Giusi. 1

La Giusi è morta di mercoledì. E il giovedì io ero in viaggio, partita per l’Elba, con la sensazione che andare fosse troppo per me, e insieme che fosse l’unica cosa che potevo fare.
Il viaggio di andata è stato disperato. Con il senso della mancanza e dello spaesamento, dell’esser nulla e nessuno, persa in mezzo a un mondo sconosciuto e transitorio.
Sono arrivata a Pisa, alla camera mortuaria.
Lei era lì, dentro la bara, così grande e grossa e gonfia, col naso che sanguinava e la testa tenera senza più capelli, col vestito nero da signora e i piedi scalzi. Una contadina grossa grossa dentro una bara. Una cosa così incongrua.
Le manone delle marmellate una di qua una di là addosso ai fianchi.
Walter che parlava, parlava, parlava, e ogni tanto le asciugava il sangue che colava dal naso. E ti dava l’impressione di non essere davvero lì, che quello che accadeva non lo avesse ancora veramente raggiunto.
La stanza squallida, colla graniglia per terra e i muri nudi, la sedia vecchia con sopra lo scottex per asciugarle il sangue o per soffiarsi il naso.
E io che mi rendevo conto di non aver mai creduto veramente che potesse morire. Anche se sapevo che era così malata, io non ci avevo mai creduto. E ancora in quel momento, davanti a lei lì nella bara, quella era una cosa che non faceva parte di quelle che si riescono a credere.
E poi parlando di quanto aveva sofferto in quegli ultimi 20 giorni, il senso della responsabilità tremenda che portavo. Per quella chiacchierata a Pasqua, quando l’avevo convinta a prendere il sangue e a curarsi fino in fondo. Lei che non ne aveva più voglia. Che aveva solo voglia di sedersi sulla sua veranda e morire in pace. Ma a cosa è servito, pensavo. Solo a farla soffrire così tanto. A farla morire in un letto di ospedale.
Anche se sapevo che c’era la Gaia, sullo sfondo. E che tutto questo era stato fatto per lei. Perché un giorno non potesse pensare che la mamma se ne era andata di sua spontanea volontà. Perché non aveva più voglia di stare con lei. Perché lei era troppo cattiva.
E intanto fuori c’era Pisa e la piazza dei Miracoli, quei miracoli di trina di marmo posati sul verde ultraterreno del prato, e la gente che passeggiava davanti alle bancarelle con gli orologi e le cravatte. E intanto anche lei c’era, lì nella camera mortuaria dell’ospedale. E tutto c’era intanto, il mondo che ruotava lento nella sua scia, l’aria e il traffico, l’Arno e le case, la notte, i bambini, gli infermieri che dicevano che era ora di chiudere e quel puzzo di piscio dentro al cesso. Tutto c’era.
Tutto c’era.
E io che pensavo che fatica aveva fatto lei, che sapeva di dover morire. Stavolta lo sapeva, lo sapeva. Quel suo sparire radicale un pezzo per volta, prima i capelli, poi le mestruazioni, poi la bellezza, via un pezzo via l’altro, e alla fine non si guardava più allo specchio perché diceva la Giusi non c’è più.
E mi sentivo così stupida. Tutto il mio soffrire mi sembrava un capriccio da bambina davanti a quella desolazione e quell’abbandono, a tutta la fatica che lei si era portata sulle spalle senza mai lamentarsi, senza mai fare la vittima. L’abbandono radicale. La solitudine definitiva.
Piano piano ho cominciato a sentirmi a casa. E’ assurdo, ma è così. A casa dentro la camera mortuaria col pavimento vecchio di graniglia e dentro il cesso puzzolente di fine giornata. A casa col Walter logorroico e allucinato. A casa in quella Pisa che poche ore prima, tirando la mia valigia per i marciapiedi ruvidi sconnessi, mi aveva fatto sentire desolata e disperata.
Siamo andati a prendere la Dina, una Dina sconnessa e lacrimante, scomposta, dilagante. Una figura da tragedia. Una donna del sud.
E poi a casa, nell’appartamento dell’AIL che il Walter aveva usato mentre la assisteva questo ultimo mese.
La sera, nel sacco a pelo sul letto di fianco a Dina, al suo corpo grosso e grasso che dormiva o faceva finta di farlo, mi sono sentita esattamente al posto giusto. Sentivo che esattamente quello era il posto dove avrei dovuto stare. Non c’era altro posto buono al mondo.

Recensione di MariaGiovanna Luini su Mangialibri


La scrittrice e chirurgo MariaGiovanna Luini recensisce "Cocci di bottiglia" sul bel sito letterario Mangialibri.
La ringrazio moltissimo per la sua lettura limpida, nitida, e così generosa da richiedermi un bel po' di consapevolezza per ritornare coi piedi per terra...
Ho appena finito di leggere il suo intenso romanzo "Una storia ai delfini". Ne parlerò al più presto. Qui sul blog, e altrove.

venerdì 12 ottobre 2007

Ma che cosa stiamo facendo ai nostri giovani? Lo schiaffo di Pagano





Sto leggendo “Pagano” di Gianfranco Franchi.
Sono solo all’inizio. Le prime trenta pagine. Ma già così è un testo che mi interroga. Con forza, con violenza.
Non voglio parlarvi del libro ora. E’ troppo presto. Prima dovrò finire di leggerlo. E poi dovrò lasciargli il tempo di entrarmi per bene dentro le cellule. Di diventare roba mia, non solo sua.
Ma già ora lo sento pizzicarmi sotto la pelle. Perché alcune delle cose che Franchi dice sono cruciali.
Premetto che sono madre di due figli. E forse questo mi fa sentire le sue parole ancora più sostanziali. Uno schiaffo in faccia, e uno schiaffo salutare.
Perché io sono uno degli ultimi membri di quella generazione privilegiata, accudita e garantita dallo stato, che ha potuto godersi il posto fisso e la cassa integrazione, le baby pensioni e le pensioni di invalidità seminate a pioggia a scopo elettorale. Che è poi quella stessa generazione che ora sta privando i propri figli di ogni diritto.
Sono anni che non mi capacito di questa cosa. I vecchi di questa nazione stanno facendo come Crono. Si mangiano i propri figli. Impedendo loro di avere un lavoro dignitoso e sicuro che permetta di metter su famiglia e uscire di casa (e poi ci si lamenta che i figli non se ne vanno più. Ma come fanno, se prendono 400 euro al mese? E anche quelli con contratto a termine, se no troppo lusso!), delle garanzie quando si ammalano o vanno in maternità, dei contributi che garantiscano in futuro una protezione durante la vecchiaia.
In nome del lavoro flessibile questa società sta meticolosamente inesorabilmente costruendo un buco nero nel futuro dei propri figli. Costringendoli a stazionare in un’adolescenza infinita, per poi piombare all’improvviso in una vecchiaia priva di qualsiasi sicurezza e protezione.
“Non mi sento bene. Tra poco avrò trent’anni e non ho nessuna certezza. Non ho un contratto che mi garantisca fiducia nel futuro e stabilità: sono un collaboratore a progetto. Non ho una casa, sono ospite della mia famiglia sin da quando sono nato. La mia automobile è intestata a mio padre. Tra poco avrò trent’anni e non ho niente.(…) Domani posso essere finito. Posso essere vivo, ma privo di tutto quel che serve a vivere dignitosamente: casa, lavoro, automobile, reddito.”
E’ così. Quel che Franchi ci racconta è storia di ordinaria follia per centinaia di migliaia di giovani (e non più tanto giovani: mi piacerebbe sapere quanti quarantenni si trovano ancora in una condizione simile). Niente potere contrattuale, viste le condizioni in cui lavorano. Prova tu a fare uno sciopero, quando sei assunto a contratto. Ma prova anche solo a restare incinta. Ti ritrovi per strada nel giro di pochi giorni.
Non c’è nessuno stato europeo che stia praticando una simile follia. Perfino la dura, liberista Inghilterra offre ai propri giovani molta più protezione di quanto non faccia l’Italia. Prima di tutto prevedendo un sistema di presalari che aiuti i giovani a studiare (qui in Italia se non paga papà sei fritto), e poi una serie di ammortizzatori e garanzie, e infine, ma non ultimo, stipendi che permettano loro di mangiare sia a pranzo che a cena. Cosa assai improbabile con un salario medio da contratto a termine italiano (ma lo sapete che i ricercatori universitari in Italia prendono 900 euro al mese? La crema intellettuale del paese. Mi domando perché ci sia ancora qualcuno che decide di studiare. Mah. Masochismo forse).
Ma cosa stiamo aspettando a mettere un rimedio a questa insana situazione?



mercoledì 10 ottobre 2007

E' tutto qui.


Vento. Nuvole quiete e stracciate, una coperta di nuvole grigie a pannicoli spessi per la mia quiete.

Il vento. Il suo rumore ondeggiante. Cresce. Gonfia. Trascina, spazza, rotola, veleggia in alto, gonfio come vele di veliero. E poi tace. E quando tace cantano gli uccelli.

Lontano. Lontano, al di là del mare, al di là delle cinte massicce di roccia dura, al di là del verde di Francia, al di là dell'Oceano, e poi su, su per il paesaggio sempre mite e sempre uguale sempre ondulato senza frattura, lassù lontano dove è freddo e lontano e solo, c'è un posto che conosco.
Un posto che mi conosce.
Ho pregato in quella chiesa senza altare. E ho pregato in quelle distese larghe senza orizzonte di erba e quieti muri di sassi pazienti.
Sono stata il sole, per un po', là. Per un momento breve.
Ma questo non ha importanza.
Penso i cespugli bassi di lavanda e lobelie blu. Le tavolette disegnate per il tè delle cinque. Il verde, verde mare di erba a perdita d'occhio, e i riquadri bassi dei muri di sassi.
Oh, non c'è altro da dire. Niente altro da nominare.
E' tutto qui.

domenica 7 ottobre 2007

Il grazie. E la responsabilità.


Timidezza, dicevo.
E senso di responsabilità.
Ne ho parlato a proposito della recensione di Gianfranco Franchi. Ma anche nel resoconto degli articoli di Barbara Gozzi e Sabrina Campolongo. Ed è la stessa sensazione provata leggendo la recensione di Nunzio Festa.
E’ la sensazione che provo a esser letta.
In effetti sono giorni che medito sulla faccenda. E le parole attente, colte, intelligenti, profonde, che i quattro scrittori hanno voluto restituire dopo la lettura del mio piccolo libro hanno avuto l’effetto di focalizzare il mio sguardo. Di costringermi, in qualche modo, a guardare quel che mi si agita dentro.
Come cambia il mio rapporto con la scrittura ora che ho pubblicato.
E, ancor di più, come cambia il mio rapporto con la scrittura scrivendo sul web.
Diciamo che, sostanzialmente, è una questione di esposizione.
Io ho sempre scritto. Per necessità. La scrittura è stata a lungo la mia medicina. L’unico modo che conoscevo per restare viva.
Ora non è più così. Per fortuna. Ora sono viva. A prescindere.
Ma la scrittura resta comunque nel campo delle cose necessarie.
Ho sempre sentito il mio rapporto con la scrittura come connesso col togliere più che con l’aggiungere. Col lacerare veli più che con il coprire di decorazioni. Stilistiche o culturali che fossero. Come meta la nudità. Magari scomoda, e conturbante. Ma sincera.
Ora, avere dei lettori sento che in qualche modo mi mette alla prova.
Intendiamoci, non perché non voglia essere letta. Ah no, tutt’altro. Ogni scrittore scrive nella speranza di essere letto, prima o poi.
No, è un mio problema. Interiore. Quello che sento a rischio è la posizione in cui io mi trovo in relazione alla scrittura.
Sono sempre stata nuda, fin qui, mentre scrivevo.
E ora? Sarò capace di continuare a esserlo, sotto gli occhi dei lettori?
Il web è paradigmatico, da questo punto di vista. Un blog nasce, cresce e vive espressamente per esser visitato quotidianamente. Come resistere alla tentazione di dare ai lettori quello che vogliono? Cercare la cosa di grido, la parola d’ordine del momento, che faccia impennare all’improvviso i contatti della tua pagina?
La responsabilità.
Ecco quello che sentivo, in questi giorni.
Responsabilità nei confronti di chi legge.
Responsabilità di rimanere, come è stato fin qui, nuda.
Responsabilità di non cercare di sedurre il lettore.

E poi il grazie.
Per prima vorrei ringraziare Francesca Mazzucato. Lei che è stata la mia prima lettrice.
Lei che è stata quella che ha fatto accadere le cose.
Francesca colta, energica, onnivora e intelligente. Francesca che davvero smuove acque stagnanti e genera cultura.
E poi vorrei ringraziare Gianluca Ferrara. Che è stato il mio secondo lettore. E che ha fatto diventare questo libro un oggetto concreto. Che c’è, che occupa un suo spazio materiale. Non è una cosa banale. Lo prendo in mano, me lo rigiro, e con meraviglia constato che c’è.
E poi, ma è un poi che ha solo un senso temporale, poi vorrei ringraziare Antonella Lattanzi, che per prima ha mostrato nello specchio il suo sguardo fondo e appassionato. Che ha scritto quella prefazione così intensa, così piena di cuore e di dedizione e di capacità di mimesi profonda, che chiunque legge il libro la sente come una parte integrante, inevitabile, di quel che viene dopo.
Ecco.
E ora, ora vorrei ringraziare tutti quelli che leggono e leggeranno.
Con gratitudine.
Con stupita meravigliata premura verso chi si china sulle mie pagine, e decide di farle sue. Di mescolarle con i suoi respiri, la saliva con cui si bagna l’indice che sfoglia, le paure i ricordi e le illuminazioni che accompagnano le parole che si sgranano sul foglio.
E verso chi si sporge incontro alle pagine di questo blog.
Che responsabilità. Entrare, pian piano, di soppiatto, nella vita di qualcuno.
Cercherò di non dimenticarmene.
Promesso.


sabato 6 ottobre 2007

Recensione di Nunzio Festa su Kult Underground

Nunzio Festa, poeta, narratore e giornalista, autore della raccolta di racconti "Sempre dipingo e mi dipingo", ha scritto ieri di "Cocci di bottiglia" sull'e-magazine Kult Underground. Lo ringrazio di cuore per la sua intensa analisi, sostanziata da una lingua densa, concreta, pastosa, capace di plasmare immagini che arrivano in profondità.

venerdì 5 ottobre 2007

Francesca Mazzucato: Magnificat Marsigliese, Via crucis e una vecchia foto con gli angoli arricciati...



Era il 1999. Stavo scrivendo un pezzo per la rivista "Storie", per cui allora lavoravo. Era un articolo per una monografia sulla letteratura di genere, e io avevo deciso di occuparmi di letteratura erotica femminile.
Fra le tante altre cose, lessi il libro "Relazioni scandalosamente pure" di Francesca, e me ne innamorai. Corsi in libreria a cercare tutto quello che potei trovare di suo: "Hot line" e "La sottomissione di Ludovica", e mi convinsi di avere fra le mani un'autrice vera. Non una scrittrice di genere, ma una narratrice. Dolente, sapiente. Sincera fino alla carne viva.
Le telefonai per proporle un'intervista.
Quell'intervista è stata l'origine della nostra amicizia. Un'amicizia fonda, densa, vera, capace di condividere le cose fondamentali. Quelle cose che possono trasformare l'angolazione da cui guardi il mondo.
Quel pezzo per Storie non è mai uscito. L'intero numero monografico fu cassato, come spesso capita alla piccole riviste. Ma Francesca, un paio d'anni fa, ha deciso di recuperarlo, e di postarlo sul suo sito Erotica. Ve lo linko qui.
Per me ha il valore di quelle vecchie foto del liceo, un po' ingiallite e con gli angoli arricciati, che a guardarle ti riportano in un attimo dentro l'aura, l'alone, il profumo di un'era della tua vita. Ci siamo io e Francesca lì dentro. E tutte le cose dense e fonde che da lì sono nate.
E poi voglio condividere con voi la lettura del Magnificat Marsigliese. La trovate qui.
Ma vorrei anche invogliarvi a leggere l'ultima chicca che ho trovato di Francesca, "Via crucis per corpo e anima svestita", ConceptGusto, ed. Arpanet. Ne parlo su Kult Underground:

"Ho avuto la fortuna di ascoltarlo prima di leggerlo. Interpretato dalla viva voce di Francesca Mazzucato.
Il mio primo contatto con questo piccolo libro, tanto piccolo da sembrare un minuscolo astuccio di confetti, è avvenuto così. In un sotterraneo buio pieno di quadri. Una galleria d’arte moderna, dove, una sera di settembre, la scrittrice ha dato suono alle sue stesse parole.
E’ stata una lettura intensa, con la voce dell’artista che scendeva fino a farsi un sussurro appena udibile, e poi saliva, nera, potente, sconvolgente. Non lasciatevi ingannare dall’aspetto di questo minimo libretto. Non è uno scrigno portagioie. È una cassaforte di dolore.
Metaracconto dalla preziosa e complessa struttura stilistica e lessicale, “Via crucis” conferma la Mazzucato come devota raccoglitrice di frammenti. Oltre ai numerosi romanzi da lei pubblicati infatti, per i quali rimando alla bibliografia in calce all’articolo, la scrittrice colleziona quotidianamente minimi stralci di vita, piccoli rimasugli di realtà scampata alla distruzione, che ci restituisce poi sotto forma di microracconti. Chi la segue sul web conosce la sua fertilità narrativa, e sa quanti di questi piccoli frantumi di esistenza l’autrice ci regali giorno per giorno, sparpagliati come le briciole di Pollicino nei numerosi blog e siti che cura e aggiorna quotidianamente...."
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lunedì 1 ottobre 2007

Recensione di Sabrina Campolongo su "BaleneBianche"

La scrittrice Sabrina Campolongo scrive oggi un nitido, denso post su "Cocci di bottiglia" all'interno del suo bel blog BaleneBianche.
La ringrazio per le sue parole, limpide e trasparenti come l'acqua.
Specchiarmi nel lettore mi dà sempre una grande emozione, e un profondo senso di timidezza. Chi mi sta di fronte contiene un mondo tutto suo, ricco, profondo, sconosciuto. E' lì, davanti a me, e regge nelle mani il mio piccolo libro. E lo fa suo.
Sento che questa è un'enorme responsabilità.
Un grazie dal profondo del cuore a Sabrina, per aver voluto condividere il suo sguardo cristallino.