mercoledì 19 dicembre 2007

Un grazie a Corona Perer per la presentazione di Cocci di Bottiglia su "GiornaleSentire"



Un vivo ringraziamento alla giornalista Corona Perer per la presentazione di Cocci di Bottiglia sul nuovo e raffinato e-magazine GiornaleSentire, di cui è direttrice. Chi ha voglia di leggerla la trova qui.
Un augurio di lunga e fertile vita a questa giovanissima e già contattatissima testata.

domenica 16 dicembre 2007

Le fiabe di Gramos

Vi segnalo una buona iniziativa che la scrittrice Sabrina Campolongo sta da qualche tempo proponendo sul suo sito Balene Bianche.
Si tratta di un'azione di supporto verso la famiglia di Gramos Gashi, un bambino kossovaro di undici anni affetto da una grave malattia metabolica, la tirosinemia. Per sopravvivere, Gramos ha bisogno di 22000 euro ogni anno.
Per raccogliere almeno una parte della somma necessaria, tempo fa Sabrina ha lanciato in rete un concorso letterario. Le fiabe degli scrittori che hanno risposto all'invito sono ora riunite in un libro, "Le fiabe di Gramos", che potete acquistare qui.
Il ricavato delle vendite sarà devoluto all'ospedale pediatrico Bambin Gesù di Roma, che provvederà a acquistare cibo speciale e medicinali per Gramos.
Se volete maggiori informazioni sull'iniziativa, potete trovarle qui.
Auguri Gramos. E grazie Sabrina.

sabato 15 dicembre 2007

Concepts Profumo: ci siamo tutte e tre! Sabrina Campolongo, MariaGiovanna Luini ed io

Mercoledì mattina mi ha raggiunta una telefonata mentre ero a scuola.
Mi chiamava la redazione di Arpanet. Volevano sapere se avrei partecipato all'evento di presentazione dei nuovi Concepts Books la sera del giorno dopo.
A Milano.
Io abito a Rovereto, in Trentino, e il mio giorno dopo funzionava così: sei ore di scuola coi bambini, più due ore di riunione con i colleghi.
Ho risposto che mi sembrava improbabile. Che avevo inviato il mio racconto "Odore di grembo e terra" per la selezione della loro iniziativa editoriale, ma non sapendone più niente, non avevo fatto nulla per cercare di liberare la giornata di giovedì 13.
La giovane voce gentile della redattrice mi ha risposto: "Guardi, non potrei dirle nulla. Noi non diciamo niente agli autori sulla pubblicazione del loro testo, fino alla data della presentazione. Però forse lei può intuire come stanno le cose, perché ora le dico che è una buona idea se cerca di fare il possibile per essere qui domani sera..."
Ho fatto il possibile. Aiutata in modo sostanziale dalla disponibilità dei colleghi e della segreteria, che mi hanno concesso al volo uno scambio di orario per il pomeriggio e una dilazione della suddetta riunione.
E così, eccomi a Milano.
Sala piena.
In fondo, un tavolo con pile di libri in trasparenza, velati da un tulle bianco.
Di fronte, i giovanissimi editori di Arpanet. Stupore e meraviglia - sembra davvero impossibile che tanta sapiente efficace concretezza venga messa in campo da questi visi adolescenti. Una realtà editoriale che in cinque anni di vita ha saputo imporsi con decisione sulla scena, con modalità e tecniche innovative di raccolta e selezione dei testi, e con una sua precisa riconoscibilità, fatta di cura e attenzione poste in uguale misura sulla qualità letteraria e sulla raffinatezza dell'oggetto libro.
E poi... sorpresa!
Il tulle viene tolto. E nel Concepts Profumo mi ritrovo in amorosa compagnia: ci siamo tutte e tre, MariaGiovanna Luini, Sabrina Campolongo ed io. Una buona parte della collana "Declinato al femminile" è racchiusa qui, dentro questa lucida, serica copertina rossa.
Mi giro a cercarle con gli occhi: non ci siamo mai incontrate prima, e cerco di individuarle nella folla di visi sconosciuti, aiutandomi con il ricordo delle loro piccole foto di blog.
Eccola, Sabrina! Era seduta proprio di fianco a me... percorriamo il breve tratto che ci separa dal proscenio scambiandoci un affettuoso sorpreso saluto. Con MariaGiovanna ci incontriamo direttamente là, davanti agli occhi di tutti, e dobbiamo rimandare gli abbracci a dopo.
Avremmo dovuto incontrarci per la prima volta il 25 gennaio, a Bologna, alla presentazione della collana "Declinato al femminile" alla biblioteca Lame; e invece eccoci qui, a sorpresa, a scambiarci occhiate e sorrisi con il nuovo Concepts Profumo fra le mani.
Scommetto che tutte e tre stiamo pensando a Francesca Mazzucato, che ci ha riunite prima che questo elegante odoroso volume venisse concepito...
Ma le sorprese non finiscono qui. Fra i testi scelti c'è anche quello del giovanissimo Francesco Giubilei, non ancora ventenne fondatore dell'e-magazine Historica, pubblicato invece nel volume Concepts Storia.
Guardo i visi dei giovani editori, e poi quello assolutamente imberbe di Francesco. Decisamente la serata è all'insegna dell'intraprendenza e dell'incisività delle nuove leve della cultura italiana.
E poi...
...e poi mi precipito a prendere il treno.
Domattina si lavora. Alle otto in punto i bambini mi aspettano.
Porto con me, sottobraccio, questo nuovo inaspettato regalo. Profumato scrigno rosso traboccante di piccolissimi, sontuosi terremoti sensoriali.
Un grazie di cuore ad Arpanet!

venerdì 7 dicembre 2007

Gianfranco Franchi presenta Pagano. Roma, 9 dicembre 2007

Troverete tutte le informazioni qui.

Se potessi ci andrei subito! Mi fa ostacolo la distanza...

Voi che abitate più vicini, andateci per me. Sarà fantastico.

giovedì 6 dicembre 2007

Ecco finalmente i video!

Ecco qui il link ai video della presentazione di venerdì 30.
Potrete ascoltare i bellissimi pezzi al piano di Lorenzo Petrolli, la presentazione del testo di Brunamaria Dal Lago, i brani da "Cocci di bottiglia" e da questo blog letti da Ludovico Rella.
Ringrazio moltissimo Paolo, Lucia, Michele e Raffaele Fanini per l'aiuto e la consulenza video!

Antonella Lattanzi, presentazione dell'opera

Ricevo, e volentieri vi estendo, questo invito di Antonella Lattanzi alla presentazione della sua opera:

"Sono felice di invitarLa alla manifestazione del 6 dicembre p.v., a Trani (BA): si tratta di una serata in cui si affronterà il mio lavoro tout-court. Dalle 19/19.30 per circa tre, quattro ore, verranno presentate tutte le mie pubblicazioni, cartacee e on line. Si partirà con una presentazione generale del mio lavoro e si proseguirà con un dialogo sulla Puglia e sui due libri pubblicati in merito - "Racconti e leggende popolari della Puglia" (2006), "Guida insolita della Puglia" (in pubblicazione), entrambi editi dalla Newton&Compton -, con lettura di brani dal libro, proiezione di diapositive del fotografo Nino Lattanzi, esposizione e racconto delle leggende e dei miti pugliesi e dell'origine di tali miti in tutto il mondo. Quindi, si passerà a presentare i miei lavori narrativi e di prosa poetica ("Col culo scomodo", "Come ci avesse fatto la stessa stella", "Viaggio al centro del libro") e di alcuni dei miei racconti apparsi in antologie. Questa seconda parte si svolgerà prevalentemente in forma di reading con sottofondo musicale dal vivo e proiezione di diapositive di Nino Lattanzi. Seguirà eventuale dibattito. Sarei felicissima di averLa come mia ospite in questa serata che per me è molto importante.RingraziandoLa dell'attenzione, La saluto con affettoAntonella LattanziLa serata si svolgerà qui:Spazio OFF - Opificio Fabrica Famae - Circolo A.R.C.I.Via Papa Giovanni n. 180 Trani (BA)Ufficio Stampa - Rocco Di FonzoTel. 0883 950122 - 3331779306 - mail: promozioneoff@yahoo.itsito: www.fabricafamae.org

mercoledì 5 dicembre 2007

Le foto di venerdì 30

Eccovi qui le fotografie della presentazione di venerdì 30 novembre. A domani per il link al video.

"Cocci di bottiglia": intervista di Annamaria Eccli sul Trentino

Ringrazio moltissimo la giornalista Annamaria Eccli per la sensibilità e l'attenzione con cui si è messa in relazione con il testo (e non solo con il testo). L'intervista scaturisce da una chiacchierata di un paio d'ore svolta nella redazione del "Trentino"; la sintesi che la Eccli ne restituisce credo riesca a fotografarmi in grande profondità.
Un grazie sentito al giornale per l'ospitalità.

sabato 1 dicembre 2007

Grazie. Grazie a voi. Con dolcissima commozione.

Ancora immersa nell'onda di emozione di ieri sera.
Questa sensazione intensissima, e nello stesso tempo soffice, protettiva, nutritiva, di calore e vicinanza. Il senso di sorpresa, sorpresa commozione nel vedere tutte queste facce care di fronte a me, tutti questi visi noti e così amati. Così tanti, tutti insieme, mescolati dentro l'alone struggente delle note che il Lolly faceva sorgere dal pianoforte. Le parole così nude che prendevano, dentro il calore della voce del Ludovico, risonanze nuove e una nuova inedita prospettiva. Mio figlio Riccardo seduto di fronte, in mezzo a voi.
Voi.
Grazie.
Che altro dire.
Mi sono sentita abbracciata.
Accolta e accettata.
Anche in questo modo nuovo, sotto questo aspetto nascosto, che alcuni di voi conoscevano di me, e altri non ancora.
Accolta e accettata.
Così come sono.
Senza più veli.
Accolta e accettata.
Grazie.
E poi devo ringraziare così tanto chi ha lavorato per far succedere la melodia di ieri.
Chi ha scelto e pubblicato il libro. Francesca Mazzucato. Gianluca Ferrara.
Chi ha scritto la prefazione. Antonella Lattanzi.
Chi ha presentato con profonda originaria sapienza il testo. Bruna Maria Dal Lago.
Chi ha lavorato con amore e concreta, costante presenza a organizzare. Paolo e Lucia Fanini.
Chi ha donato voce calda alle parole. Ludovico Rella.
Chi ha accarezzato e fatto piangere e cantare il pianoforte. Lorenzo Petrolli.
Chi ha dato appoggio, supporto e sostegno. Gabriella Quinzio di Blulibri.
Grazie.
Grazie a tutti voi.
Col cuore ancora pieno.
Grazie.
Fiorenza
P.S.: nei prossimi giorni metterò sul blog il link alle fotografie e al video di ieri sera. Ci sarete tutti voi, miei cari!

venerdì 16 novembre 2007

Quel che non so


Conosco quel prato con le mimose.
Quel cielo mobile e freddo. Nuvole grosse vento pioggia e freddo. E poi il cielo sereno e il sole caldo.
Conosco i ciuffi di mimosa agitati dal vento e il loro profumo rosa femminile virginale sparpagliato intorno. Odore di giovanetta. Di innocenza e ignoranza. Di interezza non ancora perduta.
Conosco quelle ore fresche passate a passeggiare il cane. Quell'inquieta finestra. Le foglie di limone mosse dal vento. Le macchie di sole scomposte su vetri e pavimento.

Vita mia. Vergine perduta. Volto fratturato. Velo rotto. Cerca. Cerca. Cerca.

Conosco quell'aria aperta.
Quel faticare ogni giorno per raggiungere la sera.
Quel soffrire, quel passare sotto porte basse e strette.
Conosco quella tavola rotonda con la tovaglia di plastica dove passano cose buone cucinate fuori dal frigo. Buon cibo vivo fatto in fretta. Il pane scaldato nella padella e la verdura cotta con la mozzarella.
Conosco la stanza col pavimento di piastrelle marroni. Il letto verde con la coperta di pizzo. Lo specchio enorme tutto velato di grigio.

Conosco il buio di San Luigi dei Francesi.
Conosco la navata piccola con le cappelle laterali.
Conosco quella cappella laggiù. Rivelazione.
Giù. Nell'angolo in fondo. C'è la rivelazione.
Ah, che cosa dire. Cazzo.
Non ci provare nemmeno.

sabato 10 novembre 2007

Perché scrivere: su Letteratitudine il dibattito continua

Vi riporto qui i due interventi che ho postato sul sito di Massimi Maugeri Letteratitudine, a margine dell’intervento dello scrittore Ferdinando Camon “Perché scrivere”. Ringrazio i due promotori del dibattito, e tutti coloro che, intervenendo, hanno sollevato nodi e interrogativi cruciali: per me è stata una feconda occasione di meditazione su un tema che mi sta profondamente a cuore.
"E' tutto il giorno che rifletto sulle considerazioni messe in campo da Camon e da chi è intervenuto su questo sito. E che mi chiedo se ha senso, per quanto mi riguarda, parlare di scrittura. Il fatto è che per me scrivere non è un fatto mentale. O forse è meglio dire che non voglio, non voglio che diventi un fatto mentale. La verità è un proteo, ha forma inaspettata e sfuggente, e non si trova mai dove la stai cercando. Ci arrivi per percorsi laterali, evitando di fissare le cose direttamente, lanciando brevi pudichi timorosi sguardi in tralice. Non la troverai sfondando porte o sezionando, perché nell’opera di ricerca l’avrai distrutta, calpestata senza nemmeno accorgertene. E il processo creativo è qualcosa di così delicato e fragile, che non sempre sopravvive al bisturi e al microscopio.
Eppure conosco la rigorosa implacabile sincerità di Camon. La sua estrema nuda fedeltà a se stesso. E sento di riconoscermi interamente in questa affermazione: “La responsabilità sta nello scrivere per come si è. Rispondere della propria scrittura vuol dire rispondere di come si è. Nel mostrare come si è. Nel consegnare quello che sai, quello che sei.” E dunque prendo coraggio e provo a parlare di scrittura.
La mia sensazione, scrivendo, è quella di portare una grande responsabilità. Ma non è certo una responsabilità girata verso l’esterno.
Cerco di spiegarmi meglio. Quando scrivo spesso so che cosa voglio fare. Ho in mente il risultato che vorrei ottenere. E quindi rischio di usare parole scontate. Parole mentali. Cliché. (Scrittura da best seller, per dirla con le parole di Camon).
Quel che mi salva è che in effetti io non so come riuscire a raggiungere il risultato che ho in mente. So che quel che ho in mente non si può raggiungere attraverso processi razionali. Tutto quello che so è che per riuscirci l’unico modo è una totale fedeltà.A chi? A che cosa?
Non al lettore. Mi perdoni chi legge. Se volessi esser fedele al lettore, probabilmente comprerei un manuale per scrivere best seller.
Ma neanche a una chimerica verità oggettiva. Così astratta e rarefatta da appartenere al mondo delle idee platoniche.
No. Si tratta di fedeltà a me stessa. Tutto quel che ho in mano è il tentativo, costante, di essere onesta. Onesta con me stessa, voglio dire. Posso cercare di raccontare le cose proprio così come le percepisco. Posso cercare di togliere veli invece di aggiungerne. Posso cercare di andare oltre la pelle. Esser sincera in modo feroce, fino alle ossa, fino alle budella. Esser fedele alla carne.
Ecco. Non ho altro modo.
E se qualcosa accade, accade così. Oppure non accade.
La mia responsabilità termina qui. Se qualcuno leggerà quello che è scritto, si assumerà le sue responsabilità. Ci metterà quello che è suo. Ma a quel punto, la responsabilità non è più mia. La mia parte l’ho fatta. Il resto è del lettore.
Chiedo scusa se non ho chiosato il testo di Camon. Ma sento che parlare di scrittura per me funziona solo in questi termini. Partendo da quel che la scrittura E’, per me. Partendo dalla concretezza. Dalla carne. Per il resto sono molto felice di ascoltare.
Grazie.
Fiorenza Aste
Postato Martedì, 6 Novembre 2007 alle 11:25 pm da
Fiorenza Aste

“Chiedo scusa per i tempi lunghi, ma sono lenta. Ho bisogno di passarmi le cose dentro più volte, per sentire che sapore hanno per davvero. Se do una risposta immediata, sono quasi certa di dire le cose solo con la pelle. Solo con la mente. Ho bisogno, passatemi il termine, di “respirarci sopra” per un po’, in modo da dar loro il tempo di arrivare a una buona profondità. Questo perché nel procedere mi fido poco del pensiero razionale. Quando rispondo con la ragione ho spesso la sensazione di operare semplificazioni. Di sezionare l’intero in pezzetti. Oppure viceversa, di categorizzare e generalizzare.
E invece vorrei rispondere sinceramente. E questo per me significa partire dalla mia concretezza. Dall’orizzonte della mia esperienza pratica. Dal mio essere nel mondo.
Della scrittura ho già detto. Scrivere è essere. E’ un’incarnazione dell’essere. Uno dei modi che il mio essere nel mondo manifesta. (Disperato? Sì, certo. Anche. Ma non necessariamente. Anche esultante).
Non penso di poter dire molto altro.
Ma qualcosa posso dire sul leggere.
E, ancora, parto dalla mia pratica di lettrice. Non riesco a fare generalizzazioni. Non riesco neppure a stabilire se possono esserci dei criteri secondo cui decidere se un testo è buono oppure no. O parametri per decidere l’eticità o meno di un testo. Credo che la cosa non mi interessi.
Cerco l’essere umano. E lo cerco dovunque riesco a trovarlo. Negli incontri di ogni giorno a casa e a scuola, così come fra le pagine dei libri. E ogni volta che lo incontro, esulto.
Non c’è spettacolo più affascinante e commovente di un essere umano in movimento. Il suo esistere, il suo respiro, la sua fatica, il suo dolore. Le sue illuminazioni e le sue cocciute non visioni. Il suo svelarsi e il suo spaventato nascondersi.
Che altro.
Quando lo incontro in un libro, lo riconosco.
Che sia il Decamerone o la Commedia o una tragedia di Shakespeare o Moby Dick o un fumetto o un libro di Carver o di Simenon, o l’elenco del telefono, se lo incontro lo riconosco. E non lo faccio in modo consapevole, o seguendo dei criteri. E’ che mi si mostra. E’ lì. E vederlo e riconoscerlo è tutt’uno.
Non conosco altro criterio di ricerca.
E poi è vero, è buono quando uno scrittore non si sovrappone al testo. E’ buono il suo sparire e lasciare che siano le parole scritte a parlare. Perché è l’interazione fra lettore e testo scritto che genera frutti, e ogni intervento (razionale…) di chi ha scritto rischia di compromettere il raccolto.
Ma è anche vero che quando incontro lo scrittore, fra le sue pagine, mi commuovo. E incomincio a cercarlo. A seguirlo. Di personaggio in personaggio. Di libro in libro. Lo vedo muoversi dietro le infinite maschere che ha scelto per mostrarsi a noi, e ancora una volta, è uno spettacolo emozionante. Commovente.
L’essere umano, ancora una volta.
Che altro.
Buona serata a tutti.
Postato Giovedì, 8 Novembre 2007 alle 7:20 pm da
Fiorenza Aste

martedì 6 novembre 2007

Perché scrivere: intervento di Ferdinando Camon su Letteratitudine

Segnalo un interessante dibattito che sta avendo luogo sul sito di Massimo Maugeri Letteratitudine, innescato da questo articolo di Ferdinando Camon sul perché e i modi dello scrivere. Mi sembra una feconda occasione di riflessione e di intervento per chiunque cerchi di praticare la scrittura. E credo che sarebbe importante sentire, a riguardo, anche la voce di chi legge. Camon ha gettato più di un sasso nello stagno: parla di etica e fedeltà, di menzogna, di best seller e di molto altro ancora. Vi invito a leggere e intervenire!

domenica 4 novembre 2007

Le parole

Lasciar venire le parole.
Lasciarle nascere. Partorirle come uova bianche, aspettare che si schiudano per scoprirne il sorprendente contenuto. Lasciare che vengano, senza porre ostacoli. Stupefarsi per come risuonano. Meravigliarsi per come si accoppiano. Ammirare le ghirlande che formano, impaurirsi per la morte che mostrano. Sentirle nel corpo prima che nella mente. Farle nascere dalla carne e non dalla ragione.
Non pensarle. Lasciarle venire.
Che siano parte del tutto.
Scintille della grande luce. Pasta di vita e morte e trasformazione. Feconde e sacre.
Sacre.
Ecco, sì. Sacre.

Non guidarle. Esserne guidati.
Tu non possiedi le parole. Sono le parole a possedere te. A voler uscire, a volersi legare in forme a te nuove e sconosciute. Tu sei il canale attraverso cui schizzano nel mondo. Il loro mezzo.
Non sono loro il mezzo. Tu sei il mezzo.
Affidati.
Fatti cedevole e pieghevole.
Sgombra. Aperta. Ricettiva.
Regalati senza compenso.
E le parole verranno.

lunedì 29 ottobre 2007

E se poi la chiave me la perdo per strada?

E poi è così facile lasciarsi prendere dal cliché.
Basta essere un po’ più stanchi. Un po’ più distratti. Più disponibili a inserire il pilota automatico.
Et voilà. E’ fatta. Te lo sei perso per strada.
O forse non è così. Forse è lui che ha mollato la tua strada. Sente che non è buona, che non è fatta per lui. E se ne va.
E’ successo, la settimana scorsa. Mi sono lasciata prendere dall’ansia del risultato. Dalla necessità (mia) di vedere prodotti. Dal bisogno (mio) di evidenza che lui stia imparando. In fondo sono qui per insegnargli, mi sono detta. Mica per essere la sua compagna di giochi. Non devo fargli perdere preziose occasioni di apprendimento.
Tutto molto vero.
Sono qui per insegnargli.
Ma così ragionando ho perso di vista lui.
Ho incominciato a puntare al prodotto (dev’essere una deformazione di questi giorni. Sono sempre lì che penso a produrre. Insegnami Riccardo. Mostrami la via per tornare al nocciolo), a spingerlo a finire anche quando lui non ne aveva più voglia.
E giovedì, finalmente, gli sono girate le palle.
Era ora.
Ho passato il fine settimana a meditare.
E oggi ho ricominciato dal punto zero.
Da lui. E da me.
Dalla relazione.
L’ho visto guardarmi negli occhi. E cercarmi la mano, in fila, dopo la ricreazione. E, prima di entrare in classe, fermarsi per un attimo a strofinarmi addosso la schiena come un piccolo orso.
Finalmente, cacchio, sei tornata. Cosa ci voleva a capire?

domenica 28 ottobre 2007

La miniera.


La miniera al tramonto. Quella luce di caramello sulle terre rosse. Quel colore di rosa e rosolio, quell’aria dolce che sospira e fruscia fra le falci dell’eucalipto. Il colore tenero del cielo, la casa di mattoni rossi contro il nero del ferro, il giallo dello zolfo, il bianco del gesso. Tutta quella pace e quel silenzio. Gli arbusti secchi e imbalsamati sulle balze abbandonate rosse di ossidi di ferro.
Ah dio delle miniere. Dio dell’aria dolce e azzurra. Dio delle case arrampicate intorno al porto quieto. Dio dell’acqua tenera e delle barche bianche. Dio dei cactus e degli eucalipti.

mercoledì 24 ottobre 2007

Una storia ai delfini, di MariaGiovanna Luini


Oggi recensisco il bel libro di MariaGiovanna Luini "Una storia ai delfini" , ed. Creativa, sul sito internet Kult Underground. Ve ne anticipo qualche riga:


Maria Giovanna Luini esordisce con un romanzo breve, “Una storia ai delfini”, ed. Creativa, e decide di farlo confrontandosi faccia a faccia coi temi “grossi”, quelli davvero rischiosi, quelli che incutono timore a ogni scrittore, perché è tremendamente facile fare della retorica quando si decide di toccarli. L’amore, la morte. Il dolore, la malattia. La scrittura.
La via praticata dalla Luini attraverso queste terre pericolose è nitida, nuda, scarna. L’autrice sceglie come strumento una lingua lineare, che nomina i fatti senza eccessi, una lingua dai toni “timidi e discreti”, come efficacemente nota Umberto Veronesi nella sua intensa empatica introduzione.
La storia di Lucia, voce narrante protagonista, ci viene raccontata con intensità trattenuta, compressa, come filtrata attraverso il cristallo spesso di una boccia di vetro. La trama intreccia alcuni snodi con la vicenda autobiografica dell’autrice (l’amore per il mare, la professione contemporanea di chirurgo e scrittrice, la morte della cara amica scultrice), e questo ci fa immaginare una grande densità emotiva della materia che la Luini tratta. Eppure la lingua riesce a rimanere fedele a questa rigorosa castità stilistica e lessicale, nell’intento di aderire il più possibile al ritratto che Lucia dipinge di se stessa: prima bambina precocissima ma quasi autistica, capace di leggere i Promessi sposi in prima elementare ma anche dedita a ”trascorrere le ore di ricreazione a riflettere sull’esistenza mentre il resto del mondo si divertiva a giocare”, poi adulta dalla emotività intensa ma interrotta, bloccata prima di riuscire a manifestarsi verso il mondo, prigioniera di “un’identità che non solo non avevo chiesto ma che per troppo tempo è stata solo il riflesso di ciò che gli altri volevano da me” . L’itinerario di iniziazione attraverso cui Lucia dovrà passare, e che la vedrà spogliarsi piano piano di ogni possesso, anche quello fondamentale connesso con gli affetti più profondi, la porterà infine a trovare nella scrittura il mezzo che le permette di forare il cristallo della boccia di vetro, per portare fuori quel che dentro la infuoca...

Il resto su Kult Underground.

martedì 23 ottobre 2007

Nebbie on the ROC...

Sulla non ancora chiarita vicenda del ROC, ossia il costituendo Registro degli Operatori di Comunicazione, e sull'eventuale obbligo venturo per blog e siti internet di sottostare a regole burocrazia tasse e controlli, segnalo una serie di interventi in rete che cercano di fare un po' di luce nella nebbia: Bloomsbury di Davide Fent, Letteratitudine di Massimo Maugeri, Lipperatura di Loredana Lipperini. Vi segnalo infine la coraggiosa (e per me assai dolorosa) presa di posizione di Francesca Mazzucato, che ha deciso di ridurre drasticamente l'attività del suo bellissimo blog letterario Books and other sorrows fintanto che non sarà fatta chiarezza sulla vicenda Mastella - De Magistris. Mi auguro con tutto il cuore che Francesca torni sui propri passi, perché non nutro molta fiducia nella capacità italiana di diradare le nebbie. E perdere la voce di Francesca mi parrebbe aggiungere un grave danno alla beffa che già stiamo subendo.

venerdì 19 ottobre 2007

Scrivere. Che roba è?

La struttura.
Per anni ho lavorato sulle sensazioni. Ho scoperto vie nuove, molto ricche, piene di germi pronti a germogliare, soprattutto grazie a Bacon e alla pittura in generale. Ho aperto parti di me che non conoscevo, e mezzi nuovi di cui non immaginavo l'esistenza. Il diagramma, trasportato dalla pittura alla parola, ha grandi potenzialità. Si tratta di vedere come può funzionare in una struttura più ampia, in qualcosa di lungo e articolato.
E qui sta il punto, ora.
La struttura.
E' quello che mi manca. Lo so. E con Cezanne so che le sensazioni da sole non bastano. Ci vuole anche la geometria. O con Bacon, non basta il diagramma. Bisogna uscire dalla catastrofe. Limitare il diagramma a parti ben precise.

Il diagramma è ciò che ti permette di saltare il linguaggio. Di uscire dalla gabbia imperfetta del linguaggio, che nomina senza poter toccare, che separa, allontana dalla verità. Che aliena. Proprio perché fa oggetto di ciò che nomina, lo separa da te.
La catastrofe del diagramma opera un salto radicale, lacera veli, strappa codici, contorce il senso codificato. Ti butta oltre il codice. Oltre il linguaggio. Tuffa le mani nel mondo. Tocca senza parlare.
Catastrofe salvifica che rivela il cosmo. Lo svela dagli strati cornei in cui il linguaggio lo ha imprigionato. Strappa, lacera, taglia, macella le convenzioni.
Come un bambino. Il cosmo come un bambino. Toccare il cosmo con le dita, assaggiarlo con la lingua, spalmarlo sulla pelle.
Come un bambino.
Il cosmo si rivela.
Riconoscere le sue enormi vaste leggi. La struttura che nasce proprio da lì. Struttura possente e semplice, come grossi muri di pietre e sasso.
Come un bambino.
Tornare al raccontare, ma con la sapienza di lacerare il velo.

Come conquistare una struttura. Una struttura che abbia senso ora. Qualcosa che funzioni in questi giorni arsi di inizio millennio, in queste terre frantumate dove ogni pietra miliare è stata presa a martellate fino a ridurla in polvere.

Ritornare indietro.
Tornare alle origini.
Tornare a Boccaccio, a Dante, a Shakespeare. Tornare ai Greci.
Tornare alle origini. E ripartire da lì.

Boccaccio.

Ci si dimentica che tutta l'armonia e il cosmo composito di Boccaccio nascono dalla peste.
La peste apre il libro, coi suoi gavoccioli e coi becchini, con le fosse comuni, il lezzo della morte, i cadaveri ammucchiati fuori dalle porte, le donne che aprono le loro nudità agli uomini nella malattia, le macchie nere sulla pelle e il sangue dal naso.
L'origine e la legittimazione di tutto il libro sta lì. In quell'odore acre di malattia e di cadavere.
E da lì, proprio dall'occhio di quel ciclone furioso e senza discernimento, che uccide grandi, mezzani e piccioli insieme coi porci, proprio dal colmo dello scempio, nasce un ordine armonioso, ingemmato, sereno, liquido e limpido come le acque delle fontane attorno a cui la compagnia si raduna.
Acqua attraverso cui ti tuffi nel mondo, nuoti in tutte le direzioni, e vedi ogni cosa chiaramente.
Questa visione chiara, questa licenza, per così dire, di vedere, e di nominare senza reticenze, è data dalla peste. La rottura di ogni regola e di ogni velo conveniente, e convenzionale, è legittimata dalla peste. Si può parlar forte e chiaro, in mezzo a tanto scempio. Non ha senso nascondere ciò che è così chiaro. Così evidente.
Ma anche l'ordine nasce da lì. La ricerca accurata, tenace, pervicace di armonia, simmetria, quiete, bellezza. Proprio dal cuore del caos e del disfacimento.

Avere il coraggio di cercare ordine e armonia in mezzo al caos e al disfacimento.
Avere il coraggio di guardare bene in faccia morte e orrore e cantare la gioia e il cosmo.
Avere il coraggio di uscire dalla catastrofe.
Vedere il cosmo.
Ciò che scompare, ciò di cui non siamo più capaci di vedere i contorni.
Il cosmo. Qualcosa di ordinato secondo sue enormi leggi. Secondo leggi di cui noi siamo solo una piccolissima parte. Saper vedere questo, che sta diventando invisibile agli occhi, alla mente, al cuore.
Non dimostrare. Solo mostrare.
Solo cantare.

Sfuggire alla tentazione di voler dimostrare qualcosa.
Non voler trasmettere nessun messaggio.
Solo far da prisma che scompone la luce in tutti i suoi colori. Solo far da acqua limpida che mostra ogni suo pesce.
Solo cantare.

E poi bisogna avere il coraggio di raccontare una storia.
Il coraggio di raccontare un filo, di seguirlo lungo l'arazzo dall'inizio alla fine.
Uscire dal caos.
Boccaccio ti può insegnare. Le sue storie sono gemme in una collana.

Boccaccio. Armonia e bellezza. Soave bellezza, quieta e ordinata.
"Ma per ciò che le cose che sono senza modo non possono lungamente durare..."
"Acciò che io prima essemplo dea a tutti voi, per lo quale di bene in meglio procedendo, la nostra compagnia con ordine e con piacere e senza alcuna vergogna viva e duri quanto a grado ne fia..."
"Dalle quali cose, perciò che belle e ordinate erano, rallegrato ciascuno..."

Boccaccio. La lingua.
Preziosa come una gemma.
Eppure dotata di ogni registro, dal più alto al più basso, giù giù fino all'osceno.
Ah, imparare quella lingua ricca e sonora, quella pasta di mandorle che riempie la bocca, quel soffitto affrescato di festoni di limoni e frutta, e l'odor di cucina e il tanfo delle stanze buie e delle latrine, e poi le limpide chiare acque dei giardini e delle fontane, e il sesso goduto senza colpa, come un dono di dio, festoso e gioioso, fatto di carne e pelle calda profumata di olio di rosa.

Imparare a usare ogni registro. Ogni parola, antica e nuova, piegarla come ferro caldo all'uso voluto.
E, qui e là, lasciare che le parole viaggino per conto loro. Che invadano ogni cosa, a festoni rubescenti.
Ma attenta. Che chiunque abbia occhi possa ben vedere.

Cos'hanno in comune Boccaccio, Shakespeare e Melville.
Che ognuno di loro ha usato strutture già note da tempo piegandole con libertà e forza in modo completamente nuovo.
Il più libero di tutti è forse Melville, che spazia da un genere all'altro nel giro di una pagina, dall'enciclopedia alla commedia alla tragedia al salmo biblico. Totalmente, completamente libero da ogni obbligo. Capace di riutilizzare i mattoni ricevuti da altri per costruire un edificio totalmente nuovo.
E poi Shakespeare.
La totale libertà di raccontare ogni cosa proprio com'è. Viva. Proprio così com'è. L'uso di una lingua musicale eppure pietrosa, eppure densa di corpo, eppure attaccata alle cose, facente parte delle cose, tutt'uno.
L'audacia. Raccontare cose mirabolanti, grandi, enormi, di cui non si scorgono i contorni, eppure saperle nominare. Senza diminuirle, senza ucciderle. Perché mostra, e non dimostra. Perché lascia a ciascuno la propria grandezza e la propria umanità. Tutte le sfaccettature, i meandri bui, le lame di luce tagliente.
La lingua. Quella cadenza di musica, le parole grosse e oscene, le parole musicali, i gioielli. Ci sono veri gioielli nei suoi versi, incastonati all'improvviso in una riga. E poi il coraggio di nominare ogni cosa. In tutta la sua granitica, carnosa, pastosa essenza. Terribile essenza. Magnifica essenza.
Ogni cosa proprio così com’è. Non come dovrebbe essere. Proprio com’è.
Non so cosa sia la mia scrittura ora.
Sento che deve essere dentro alle cose.
So che deve toccare le cose con sincerità. Ma anche con grande semplicità.
Che chiunque abbia gli occhi possa ben vedere.
E nello stesso tempo deve avere un filo conduttore. Un corso, una via. Non deve espandersi senza forma, in ogni direzione, ma deve seguire la strada che le è prefissata.
Deve esserci una struttura. E insieme la vita. Come le ossa sotto la carne.

Non so cosa sia la mia scrittura ora.

lunedì 15 ottobre 2007

Giusi. 2

La mattina dopo era una mattina abbagliante. Un sole autunnale basso e radente, e tagliente di luce acutissima, che accarezzava tutte le cose e le rivelava senza scampo, minuziose, piccolissime.
Il viaggio dietro al feretro è stato così strano. Quella strada che non riconoscevo, gratificata di quella luce così diversa da sempre, così inclinata, e insieme così potente. I colori erano diversi, le luci, le cose, i pini, le colline, ogni cosa diversa e bellissima. Il mare, a destra, blu profondo ogni tanto dietro le colline, contro l’azzurro tenero del cielo.
Il viaggio in nave coi parenti, e con la sensazione di essere una di famiglia. Una di casa.
E uscire dalla nave dentro quella luce dorata, sparsa sui muri delle case come una lastra gialla, impregnata nelle molecole dell’aria azzurra, appoggiata su ogni singola foglia, inclinata a metà, frugante fra i rami, cercante fra i cespugli del bosco a svelare il mare là sotto, l’azzurro dentro il buio dei lecci.
Dio che bella l’isola, che bella, una bellezza mozzafiato, sconvolgente e di sorpresa, una bellezza inaspettata e schiaffeggiante, urlata, graffiante, luminosa di quella luce morente e cantante di tardo autunno.
Che bella che bella che bella che bella.
Dietro la bara, in fila. Micol e Stefano, Stefania di Giulio, Giuseppina, zio Elvio. Corteo di parenti. Curva curva per quella strada così nota che a pensarla mi si stringe il cuore di nostalgia.
Lo spazio aumentava. Mano a mano, l’orizzonte si allargava a contenere il mondo.
L’isola era lì, e era quello che era. Era una meraviglia. E c’era. C’era, e anche lei c’era, e questo fatto era qualcosa di meraviglioso. L’orizzonte era così vasto, e comprendeva lei e questa luce che piano piano virava al violetto mano a mano che si abbassava sull’orizzonte. E non c’era contraddizione né perdita.

domenica 14 ottobre 2007

Giusi. 1

La Giusi è morta di mercoledì. E il giovedì io ero in viaggio, partita per l’Elba, con la sensazione che andare fosse troppo per me, e insieme che fosse l’unica cosa che potevo fare.
Il viaggio di andata è stato disperato. Con il senso della mancanza e dello spaesamento, dell’esser nulla e nessuno, persa in mezzo a un mondo sconosciuto e transitorio.
Sono arrivata a Pisa, alla camera mortuaria.
Lei era lì, dentro la bara, così grande e grossa e gonfia, col naso che sanguinava e la testa tenera senza più capelli, col vestito nero da signora e i piedi scalzi. Una contadina grossa grossa dentro una bara. Una cosa così incongrua.
Le manone delle marmellate una di qua una di là addosso ai fianchi.
Walter che parlava, parlava, parlava, e ogni tanto le asciugava il sangue che colava dal naso. E ti dava l’impressione di non essere davvero lì, che quello che accadeva non lo avesse ancora veramente raggiunto.
La stanza squallida, colla graniglia per terra e i muri nudi, la sedia vecchia con sopra lo scottex per asciugarle il sangue o per soffiarsi il naso.
E io che mi rendevo conto di non aver mai creduto veramente che potesse morire. Anche se sapevo che era così malata, io non ci avevo mai creduto. E ancora in quel momento, davanti a lei lì nella bara, quella era una cosa che non faceva parte di quelle che si riescono a credere.
E poi parlando di quanto aveva sofferto in quegli ultimi 20 giorni, il senso della responsabilità tremenda che portavo. Per quella chiacchierata a Pasqua, quando l’avevo convinta a prendere il sangue e a curarsi fino in fondo. Lei che non ne aveva più voglia. Che aveva solo voglia di sedersi sulla sua veranda e morire in pace. Ma a cosa è servito, pensavo. Solo a farla soffrire così tanto. A farla morire in un letto di ospedale.
Anche se sapevo che c’era la Gaia, sullo sfondo. E che tutto questo era stato fatto per lei. Perché un giorno non potesse pensare che la mamma se ne era andata di sua spontanea volontà. Perché non aveva più voglia di stare con lei. Perché lei era troppo cattiva.
E intanto fuori c’era Pisa e la piazza dei Miracoli, quei miracoli di trina di marmo posati sul verde ultraterreno del prato, e la gente che passeggiava davanti alle bancarelle con gli orologi e le cravatte. E intanto anche lei c’era, lì nella camera mortuaria dell’ospedale. E tutto c’era intanto, il mondo che ruotava lento nella sua scia, l’aria e il traffico, l’Arno e le case, la notte, i bambini, gli infermieri che dicevano che era ora di chiudere e quel puzzo di piscio dentro al cesso. Tutto c’era.
Tutto c’era.
E io che pensavo che fatica aveva fatto lei, che sapeva di dover morire. Stavolta lo sapeva, lo sapeva. Quel suo sparire radicale un pezzo per volta, prima i capelli, poi le mestruazioni, poi la bellezza, via un pezzo via l’altro, e alla fine non si guardava più allo specchio perché diceva la Giusi non c’è più.
E mi sentivo così stupida. Tutto il mio soffrire mi sembrava un capriccio da bambina davanti a quella desolazione e quell’abbandono, a tutta la fatica che lei si era portata sulle spalle senza mai lamentarsi, senza mai fare la vittima. L’abbandono radicale. La solitudine definitiva.
Piano piano ho cominciato a sentirmi a casa. E’ assurdo, ma è così. A casa dentro la camera mortuaria col pavimento vecchio di graniglia e dentro il cesso puzzolente di fine giornata. A casa col Walter logorroico e allucinato. A casa in quella Pisa che poche ore prima, tirando la mia valigia per i marciapiedi ruvidi sconnessi, mi aveva fatto sentire desolata e disperata.
Siamo andati a prendere la Dina, una Dina sconnessa e lacrimante, scomposta, dilagante. Una figura da tragedia. Una donna del sud.
E poi a casa, nell’appartamento dell’AIL che il Walter aveva usato mentre la assisteva questo ultimo mese.
La sera, nel sacco a pelo sul letto di fianco a Dina, al suo corpo grosso e grasso che dormiva o faceva finta di farlo, mi sono sentita esattamente al posto giusto. Sentivo che esattamente quello era il posto dove avrei dovuto stare. Non c’era altro posto buono al mondo.

Recensione di MariaGiovanna Luini su Mangialibri


La scrittrice e chirurgo MariaGiovanna Luini recensisce "Cocci di bottiglia" sul bel sito letterario Mangialibri.
La ringrazio moltissimo per la sua lettura limpida, nitida, e così generosa da richiedermi un bel po' di consapevolezza per ritornare coi piedi per terra...
Ho appena finito di leggere il suo intenso romanzo "Una storia ai delfini". Ne parlerò al più presto. Qui sul blog, e altrove.

venerdì 12 ottobre 2007

Ma che cosa stiamo facendo ai nostri giovani? Lo schiaffo di Pagano





Sto leggendo “Pagano” di Gianfranco Franchi.
Sono solo all’inizio. Le prime trenta pagine. Ma già così è un testo che mi interroga. Con forza, con violenza.
Non voglio parlarvi del libro ora. E’ troppo presto. Prima dovrò finire di leggerlo. E poi dovrò lasciargli il tempo di entrarmi per bene dentro le cellule. Di diventare roba mia, non solo sua.
Ma già ora lo sento pizzicarmi sotto la pelle. Perché alcune delle cose che Franchi dice sono cruciali.
Premetto che sono madre di due figli. E forse questo mi fa sentire le sue parole ancora più sostanziali. Uno schiaffo in faccia, e uno schiaffo salutare.
Perché io sono uno degli ultimi membri di quella generazione privilegiata, accudita e garantita dallo stato, che ha potuto godersi il posto fisso e la cassa integrazione, le baby pensioni e le pensioni di invalidità seminate a pioggia a scopo elettorale. Che è poi quella stessa generazione che ora sta privando i propri figli di ogni diritto.
Sono anni che non mi capacito di questa cosa. I vecchi di questa nazione stanno facendo come Crono. Si mangiano i propri figli. Impedendo loro di avere un lavoro dignitoso e sicuro che permetta di metter su famiglia e uscire di casa (e poi ci si lamenta che i figli non se ne vanno più. Ma come fanno, se prendono 400 euro al mese? E anche quelli con contratto a termine, se no troppo lusso!), delle garanzie quando si ammalano o vanno in maternità, dei contributi che garantiscano in futuro una protezione durante la vecchiaia.
In nome del lavoro flessibile questa società sta meticolosamente inesorabilmente costruendo un buco nero nel futuro dei propri figli. Costringendoli a stazionare in un’adolescenza infinita, per poi piombare all’improvviso in una vecchiaia priva di qualsiasi sicurezza e protezione.
“Non mi sento bene. Tra poco avrò trent’anni e non ho nessuna certezza. Non ho un contratto che mi garantisca fiducia nel futuro e stabilità: sono un collaboratore a progetto. Non ho una casa, sono ospite della mia famiglia sin da quando sono nato. La mia automobile è intestata a mio padre. Tra poco avrò trent’anni e non ho niente.(…) Domani posso essere finito. Posso essere vivo, ma privo di tutto quel che serve a vivere dignitosamente: casa, lavoro, automobile, reddito.”
E’ così. Quel che Franchi ci racconta è storia di ordinaria follia per centinaia di migliaia di giovani (e non più tanto giovani: mi piacerebbe sapere quanti quarantenni si trovano ancora in una condizione simile). Niente potere contrattuale, viste le condizioni in cui lavorano. Prova tu a fare uno sciopero, quando sei assunto a contratto. Ma prova anche solo a restare incinta. Ti ritrovi per strada nel giro di pochi giorni.
Non c’è nessuno stato europeo che stia praticando una simile follia. Perfino la dura, liberista Inghilterra offre ai propri giovani molta più protezione di quanto non faccia l’Italia. Prima di tutto prevedendo un sistema di presalari che aiuti i giovani a studiare (qui in Italia se non paga papà sei fritto), e poi una serie di ammortizzatori e garanzie, e infine, ma non ultimo, stipendi che permettano loro di mangiare sia a pranzo che a cena. Cosa assai improbabile con un salario medio da contratto a termine italiano (ma lo sapete che i ricercatori universitari in Italia prendono 900 euro al mese? La crema intellettuale del paese. Mi domando perché ci sia ancora qualcuno che decide di studiare. Mah. Masochismo forse).
Ma cosa stiamo aspettando a mettere un rimedio a questa insana situazione?



mercoledì 10 ottobre 2007

E' tutto qui.


Vento. Nuvole quiete e stracciate, una coperta di nuvole grigie a pannicoli spessi per la mia quiete.

Il vento. Il suo rumore ondeggiante. Cresce. Gonfia. Trascina, spazza, rotola, veleggia in alto, gonfio come vele di veliero. E poi tace. E quando tace cantano gli uccelli.

Lontano. Lontano, al di là del mare, al di là delle cinte massicce di roccia dura, al di là del verde di Francia, al di là dell'Oceano, e poi su, su per il paesaggio sempre mite e sempre uguale sempre ondulato senza frattura, lassù lontano dove è freddo e lontano e solo, c'è un posto che conosco.
Un posto che mi conosce.
Ho pregato in quella chiesa senza altare. E ho pregato in quelle distese larghe senza orizzonte di erba e quieti muri di sassi pazienti.
Sono stata il sole, per un po', là. Per un momento breve.
Ma questo non ha importanza.
Penso i cespugli bassi di lavanda e lobelie blu. Le tavolette disegnate per il tè delle cinque. Il verde, verde mare di erba a perdita d'occhio, e i riquadri bassi dei muri di sassi.
Oh, non c'è altro da dire. Niente altro da nominare.
E' tutto qui.

domenica 7 ottobre 2007

Il grazie. E la responsabilità.


Timidezza, dicevo.
E senso di responsabilità.
Ne ho parlato a proposito della recensione di Gianfranco Franchi. Ma anche nel resoconto degli articoli di Barbara Gozzi e Sabrina Campolongo. Ed è la stessa sensazione provata leggendo la recensione di Nunzio Festa.
E’ la sensazione che provo a esser letta.
In effetti sono giorni che medito sulla faccenda. E le parole attente, colte, intelligenti, profonde, che i quattro scrittori hanno voluto restituire dopo la lettura del mio piccolo libro hanno avuto l’effetto di focalizzare il mio sguardo. Di costringermi, in qualche modo, a guardare quel che mi si agita dentro.
Come cambia il mio rapporto con la scrittura ora che ho pubblicato.
E, ancor di più, come cambia il mio rapporto con la scrittura scrivendo sul web.
Diciamo che, sostanzialmente, è una questione di esposizione.
Io ho sempre scritto. Per necessità. La scrittura è stata a lungo la mia medicina. L’unico modo che conoscevo per restare viva.
Ora non è più così. Per fortuna. Ora sono viva. A prescindere.
Ma la scrittura resta comunque nel campo delle cose necessarie.
Ho sempre sentito il mio rapporto con la scrittura come connesso col togliere più che con l’aggiungere. Col lacerare veli più che con il coprire di decorazioni. Stilistiche o culturali che fossero. Come meta la nudità. Magari scomoda, e conturbante. Ma sincera.
Ora, avere dei lettori sento che in qualche modo mi mette alla prova.
Intendiamoci, non perché non voglia essere letta. Ah no, tutt’altro. Ogni scrittore scrive nella speranza di essere letto, prima o poi.
No, è un mio problema. Interiore. Quello che sento a rischio è la posizione in cui io mi trovo in relazione alla scrittura.
Sono sempre stata nuda, fin qui, mentre scrivevo.
E ora? Sarò capace di continuare a esserlo, sotto gli occhi dei lettori?
Il web è paradigmatico, da questo punto di vista. Un blog nasce, cresce e vive espressamente per esser visitato quotidianamente. Come resistere alla tentazione di dare ai lettori quello che vogliono? Cercare la cosa di grido, la parola d’ordine del momento, che faccia impennare all’improvviso i contatti della tua pagina?
La responsabilità.
Ecco quello che sentivo, in questi giorni.
Responsabilità nei confronti di chi legge.
Responsabilità di rimanere, come è stato fin qui, nuda.
Responsabilità di non cercare di sedurre il lettore.

E poi il grazie.
Per prima vorrei ringraziare Francesca Mazzucato. Lei che è stata la mia prima lettrice.
Lei che è stata quella che ha fatto accadere le cose.
Francesca colta, energica, onnivora e intelligente. Francesca che davvero smuove acque stagnanti e genera cultura.
E poi vorrei ringraziare Gianluca Ferrara. Che è stato il mio secondo lettore. E che ha fatto diventare questo libro un oggetto concreto. Che c’è, che occupa un suo spazio materiale. Non è una cosa banale. Lo prendo in mano, me lo rigiro, e con meraviglia constato che c’è.
E poi, ma è un poi che ha solo un senso temporale, poi vorrei ringraziare Antonella Lattanzi, che per prima ha mostrato nello specchio il suo sguardo fondo e appassionato. Che ha scritto quella prefazione così intensa, così piena di cuore e di dedizione e di capacità di mimesi profonda, che chiunque legge il libro la sente come una parte integrante, inevitabile, di quel che viene dopo.
Ecco.
E ora, ora vorrei ringraziare tutti quelli che leggono e leggeranno.
Con gratitudine.
Con stupita meravigliata premura verso chi si china sulle mie pagine, e decide di farle sue. Di mescolarle con i suoi respiri, la saliva con cui si bagna l’indice che sfoglia, le paure i ricordi e le illuminazioni che accompagnano le parole che si sgranano sul foglio.
E verso chi si sporge incontro alle pagine di questo blog.
Che responsabilità. Entrare, pian piano, di soppiatto, nella vita di qualcuno.
Cercherò di non dimenticarmene.
Promesso.


sabato 6 ottobre 2007

Recensione di Nunzio Festa su Kult Underground

Nunzio Festa, poeta, narratore e giornalista, autore della raccolta di racconti "Sempre dipingo e mi dipingo", ha scritto ieri di "Cocci di bottiglia" sull'e-magazine Kult Underground. Lo ringrazio di cuore per la sua intensa analisi, sostanziata da una lingua densa, concreta, pastosa, capace di plasmare immagini che arrivano in profondità.

venerdì 5 ottobre 2007

Francesca Mazzucato: Magnificat Marsigliese, Via crucis e una vecchia foto con gli angoli arricciati...



Era il 1999. Stavo scrivendo un pezzo per la rivista "Storie", per cui allora lavoravo. Era un articolo per una monografia sulla letteratura di genere, e io avevo deciso di occuparmi di letteratura erotica femminile.
Fra le tante altre cose, lessi il libro "Relazioni scandalosamente pure" di Francesca, e me ne innamorai. Corsi in libreria a cercare tutto quello che potei trovare di suo: "Hot line" e "La sottomissione di Ludovica", e mi convinsi di avere fra le mani un'autrice vera. Non una scrittrice di genere, ma una narratrice. Dolente, sapiente. Sincera fino alla carne viva.
Le telefonai per proporle un'intervista.
Quell'intervista è stata l'origine della nostra amicizia. Un'amicizia fonda, densa, vera, capace di condividere le cose fondamentali. Quelle cose che possono trasformare l'angolazione da cui guardi il mondo.
Quel pezzo per Storie non è mai uscito. L'intero numero monografico fu cassato, come spesso capita alla piccole riviste. Ma Francesca, un paio d'anni fa, ha deciso di recuperarlo, e di postarlo sul suo sito Erotica. Ve lo linko qui.
Per me ha il valore di quelle vecchie foto del liceo, un po' ingiallite e con gli angoli arricciati, che a guardarle ti riportano in un attimo dentro l'aura, l'alone, il profumo di un'era della tua vita. Ci siamo io e Francesca lì dentro. E tutte le cose dense e fonde che da lì sono nate.
E poi voglio condividere con voi la lettura del Magnificat Marsigliese. La trovate qui.
Ma vorrei anche invogliarvi a leggere l'ultima chicca che ho trovato di Francesca, "Via crucis per corpo e anima svestita", ConceptGusto, ed. Arpanet. Ne parlo su Kult Underground:

"Ho avuto la fortuna di ascoltarlo prima di leggerlo. Interpretato dalla viva voce di Francesca Mazzucato.
Il mio primo contatto con questo piccolo libro, tanto piccolo da sembrare un minuscolo astuccio di confetti, è avvenuto così. In un sotterraneo buio pieno di quadri. Una galleria d’arte moderna, dove, una sera di settembre, la scrittrice ha dato suono alle sue stesse parole.
E’ stata una lettura intensa, con la voce dell’artista che scendeva fino a farsi un sussurro appena udibile, e poi saliva, nera, potente, sconvolgente. Non lasciatevi ingannare dall’aspetto di questo minimo libretto. Non è uno scrigno portagioie. È una cassaforte di dolore.
Metaracconto dalla preziosa e complessa struttura stilistica e lessicale, “Via crucis” conferma la Mazzucato come devota raccoglitrice di frammenti. Oltre ai numerosi romanzi da lei pubblicati infatti, per i quali rimando alla bibliografia in calce all’articolo, la scrittrice colleziona quotidianamente minimi stralci di vita, piccoli rimasugli di realtà scampata alla distruzione, che ci restituisce poi sotto forma di microracconti. Chi la segue sul web conosce la sua fertilità narrativa, e sa quanti di questi piccoli frantumi di esistenza l’autrice ci regali giorno per giorno, sparpagliati come le briciole di Pollicino nei numerosi blog e siti che cura e aggiorna quotidianamente...."
Il resto su Kult Underground

lunedì 1 ottobre 2007

Recensione di Sabrina Campolongo su "BaleneBianche"

La scrittrice Sabrina Campolongo scrive oggi un nitido, denso post su "Cocci di bottiglia" all'interno del suo bel blog BaleneBianche.
La ringrazio per le sue parole, limpide e trasparenti come l'acqua.
Specchiarmi nel lettore mi dà sempre una grande emozione, e un profondo senso di timidezza. Chi mi sta di fronte contiene un mondo tutto suo, ricco, profondo, sconosciuto. E' lì, davanti a me, e regge nelle mani il mio piccolo libro. E lo fa suo.
Sento che questa è un'enorme responsabilità.
Un grazie dal profondo del cuore a Sabrina, per aver voluto condividere il suo sguardo cristallino.

domenica 30 settembre 2007

Birmania. L'azione nonviolenta



"Non c'è una via per la pace. La pace è la via."


Thich Nhat Hanh


Questo silenzioso camminare per le strade, quieto, consapevole, ben conscio dei carri armati con i cannoni puntati, mi commuove fino al midollo.
Non c'è nulla di passivo in questa marcia. E' azione. Azione forte, intensa, determinata.
Eppure totalmente nonviolenta.
Propone, nel silenzio e nella pace, l'evidenza di ciò che è giusto e di ciò che non lo è.
Se la parola coraggio ha un senso, questo è ciò che le assomiglia di più.
Per sostenere l'azione nonviolenta dei monaci, delle monache e del popolo birmano:
http://www.amnesty.it/appelli/azioni_urgenti/Myanmar
http://www.avaaz.org/en/stand_with_burma/tf.php?cl_tf_sign=1

L'anoressia, l'amore e la parola

Barbara Gozzi ha proposto ieri, sul suo interessantissimo blog Progetto Butterfly, il tema dell’anoressia. Prendendo spunto dalla campagna “No Anorexia” lanciata sulla stampa nazionale da Oliviero Toscani, Barbara ci propone una serie di stralci sul tema raccolti navigando in rete. La pietra nello stagno, a dire il vero, Barbara l’aveva lanciata già qualche settimana fa, dal sito di Massimo Maugeri Letteratitudine, postando un estratto del suo racconto “Click jeans”, pubblicato da Concept Moda. Il racconto, che parla di anoressia, ha provocato un inatteso diluvio di commenti.
Che dire su questo tema, che non suoni come una paternale o un trattato psicanalitico. E’ così facile prendere la scorciatoia della retorica. O quella del tecnicismo.
Ho detto a Barbara che mi sarei presa la notte per meditarci sopra. In realtà mi sono presa anche tutto il giorno successivo. E adesso, eccomi qui a provarci.
Posso dire, credo, delle cose da donna. Perché l’anoressia è donna, su questo non ci piove. E’ qualcosa che qui, in questa nostra ricca opulenta civiltà occidentale, mediante il rifiuto di tutto questo cibo che non è mai stato così sovrabbondante come ora, segnala la presenza di una profonda distorsione. Un dolore di vivere totale, radicale, che questi corpi sospesi sul limine fra la vita e la morte urlano, con tutto il fiato che hanno in corpo. Un dolore che sta cucito dentro la stoffa di cui siamo fatti. Che sta dentro il latte che abbiamo bevuto fin da piccoli. Che sta dentro la nostra epistemologia, insomma. Dentro il modo con cui noi occidentali guardiamo il mondo.
Sono d’accordo con Oliviero Toscani. Non è il mondo della moda l’origine del problema. Sarebbe come dire che il raffreddore che uccide il malato di aids è la causa prima della sua morte. Non dobbiamo confondere il sintomo con la malattia.
E so, lo so con quel sapere non razionale che viene dalle budella, che non serve a nulla dire a un’anoressica “Mangia”. Oppure “Vergognati a non mangiare”. Perché, nonostante le apparenze facciano credere il contrario, non è per loro scelta che le anoressiche non mangiano. L’anoressia è un sintomo. La spia di segnalazione di un dolore, lacerante, profondo, così insopportabile da costringerle a un corpo a corpo quotidiano con la morte.
E allora, dove sta il nodo?
Il corpo è la pietra dello scandalo.
Nel pensiero dualistico occidentale, la carne viene connessa con la materia. E la materia è il male. E’ impura per definizione. E’ ciò che svia dallo spirito, ciò che sprofonda verso il basso, ciò che muore e si decompone.
E la donna è carne. Anzi. E’ La Carne. (Le pornostar sono carnose. Le ragazze calendario hanno grosse tette e culi burrosi.) O Il Sesso, che è la stessa cosa.
Per una donna ogni cosa collassa sul suo corpo. Non solo deve fare i conti con le proprie pulsioni e i propri desideri, ma anche con i desideri altrui. Con gli occhi altrui che cercano invadono frugano possiedono. Con mani invadenti e cazzi penetranti. E tutto, tutto finisce per ricadere sopra questo suo corpo, dentro questa sua amataodiata carne, da cui non sfugge. Se non cancellandola.
L’anoressia trova un modo eccellente per tenere fuori il mondo. Per espellere fuori dal corpo tutto quello scandalo. Tutta quella feroce bramosa insopportabile attenzione.
E questo è un primo motivo di fuga. Se la carne è la prigione in cui sono rinchiusa, allora ne toglierò il più possibile, mi libererò e diventerò spirito. E così sarò pura, pulita, libera da contaminazioni da parte di una realtà ambigua sporca e invadente che cerca un varco per penetrarmi dentro.
E poi c’è una grossa confusione postfemminista. Un sostanziale, sbalorditivo sbaglio di fondo. Noi donne abbiamo spesso dato per scontato che emanciparsi significasse essere come l’uomo. Per ritrovarci poi catturate negli stereotipi maschili, imprigionate dentro la velocità, la quantità, la fretta, la produttività.
E questo è un secondo motivo di fuga. Solo negando la mia femminilità, in realtà, posso vincere. La femminilità è una trappola, un laccio, un vincolo, un ostacolo. Un fardello, tutta quella carne pesante molle umida concreta. Tutto quel retaggio arcano e arcaico di fertilità e fecondità e sessualità oscura piena di recessi umidi. Tutto quel corpo che chiede insistentemente, scandalosamente di essere sottomesso. Sotto-messo. Riempito, posseduto. Qualcosa di cui mi devo sbarazzare, per essere pura, libera, leggera, svincolata, assoluta. Onnipotente.
E qui entra un terzo motivo di fuga. Questo mio corpo magro da impubere significa onnipotenza. Resto così, nel regno indeterminato dell’adolescenza. Non sono ancora qualcosa di preciso. Non mi sono individuata. Non sono “una donna”. E dunque posso essere tutto. Sono Proteo nella sua illimitatezza, pronta a cambiar forma appena qualcuno cerca di afferrarmi. Polivalente, piena di vie di fuga. Libera.
Infine spesso l’anoressica ha subito un cortocircuito sul piano delle regole. Qualcosa non ha funzionato nella trasmissione delle norme, che appaiono in qualche modo poco chiare, contraddittorie, inaffidabili. Piene di doppi vincoli, piene di non detto. C’è stata confusione su qual era il terreno di gioco di ciascuno. In qualche modo, lei è stata invasa. Lei come individuo non è stata rispettata. I suoi confini sono stati forzati, o mai nettamente individuati.
E dunque ora lei deve stabilire regole chiare.
E questo è un quarto motivo di fuga. Devo definire i miei contorni. Tracciare il limite invalicabile oltre il quale gli altri non possono passare. Sono ferrea, nella mia disciplina. Perché è questione di vita o di morte. E’ questione di sapere chi sono. Chi cerca di invadermi resterà fuori da questo muro che ho eretto, e che ho seminato di cocci di bottiglia.
Ecco perché un tempo l’anoressia veniva ritenuta un male incurabile. In realtà l’anoressica non accetta, da nessuno, il travalicamento del muro. E’ questione di salvezza per lei. Di vita o di morte. Di chi lei è. Se si lascia penetrare dal terapeuta, chiunque poi la potrà di nuovo violare. Una volta che il muro è crollato, il mondo la sommergerà di nuovo come un’alluvione incontenibile.
E allora? Che fare con questa folla sempre più numerosa di ragazze che un bel giorno della loro vita decidono che vivranno senza mangiare, e in questo modo attuano l’insurrezione più radicale che possa essere concepita contro le leggi dell’esistenza, contro i cardini stessi dello stare al mondo?
Forse vedere che l’anoressia non è altro che una malattia d’amore. Malattia di amore negato, di terrore di perdere l’amore altrui. Si soffre di meno quando il dolore lo si crea con le proprie mani, anziché quando si permette agli altri di procurarcelo. In fondo è qui la chiave di tutto. Escludere il mondo per eliminare il rischio di soffrire. Il terrore di non meritare amore.
La cura, in ogni caso, è l’aiuto a levare la maschera. A distogliere gli occhi dal sintomo, che urla in modo silenzioso e afasico attraverso quelle ossa che forano la pelle cercando di calamitare tutta l’attenzione, per concentrarsi invece su ciò che davvero sta cercando di parlare e non può. Perché l’anoressia, come un tempo l’isteria, non si fida della parola. L’isteria urlava al mondo l’indicibilità del reale. L’orrore di ciò che è e non può esser detto.
L’anoressia propone l’evidenza del dolore dentro la carne. Spostando sul piano del corpo quel che non può essere detto con le parole.
Ridare parole al dolore. Nominare. Riconoscere.
E abbracciare.
Con tutto l’amore del mondo.
Amiche mie. Amiche mie che ancora non vi vedete. Così ricche. Così travagliate. Così belle. Così sofferenti. Così deboli. Così forti.
Così generose, così piene di tutto quello che è. Amore. Bellezza. Intelligenza. Piccolezza. Fragilità. Accoglienza.
Così sontuose. Così carnose fonde vive nere luminose.
Carne, carne vita sangue sparse generosamente per la strada. E ho detto sparse perché tutto questo è femmina.
Femmina. Femmina. Femmina.
Amatevi, vi prego.
Che tutta questa vostra bellezza non vada dispersa dentro il vento senza portare frutto.

venerdì 28 settembre 2007

Ciao, Francis. Intervista immaginaria a Francis Bacon





Ciao Francis. Devo chiamarti Maestro?

Vaffanculo. Non sfottere.

No. Davvero. Non è per sfottere. La gente usa chiamare Maestro quelli come te. E’ un riconoscimento alla bravura. Al genio. All’eccellenza.

Quale bravura. Quale genio. Vaffanculo.

O.K. Va bene. Ricominciamo da capo. Ciao Francis. Come va adesso che ti sei liberato del corpo? Ti senti sollevato, tu che del corpo avevi fatto un’ossessione?

Un’ossessione? Che cosa vuol dire? Non c’è nient’altro al di fuori del corpo. Io ho solo cercato di essere sincero. Ho cercato di restituire onestamente la verità. La carne il flusso del sangue il contrarsi delle budella le vene il cavo dei denti il rosso carminio delle gengive. La verità. Tutto qui.

La verità. Ma che cos’è la verità? Se dici così, sembra che ce ne sia una sola. Vuoi dire che la sola verità possibile sta in quei corpi contorti che esplodono e si rivoltano fuori di se stessi in una fuga a precipizio fuori da ogni orifizio?

Io non sto dicendo niente. Sei tu che dici. Sei tu che giochi con le parole e te le lasci sbrodolare giù per il mento come la pappa di un neonato. Hai bisogno di un bavaglino, per caso?

Ma se queste non sono le parole giuste, allora io non so come parlare di tutto… tutto questo. Come si fa a parlarne? Quali sono le parole giuste?

Di queste cose non si può parlare. Ogni tentativo di parlarne smuove solo aria viziata. Queste cose si fanno.

Queste cose si fanno. O.K. Allora diciamo che questo va bene per te, che queste “cose” sei in grado di farle. Ma quello che sta dall’altra parte? Il tizio che sta lì e guarda quello che tu hai fatto? Che margine di azione gli resta?

Ah, affari suoi. La cosa non mi riguarda. Io quel che dovevo fare l’ho fatto. Quel che fa questo “tizio”, come lo chiami tu, non mi riguarda minimamente.

Vuoi dire che non hai in mente nessun pubblico quando dipingi?

Io ho in mente solo la verità. Come rendere più vero quello che sento. Tutto qui. Se poi tu hai voglia di appenderci un’etichetta, a quello che io ho fatto, sono affari tuoi. L’etichetta è tua, non mia.

Allora parliamo di verità, visto che l’hai nominata diverse volte. Quanta verità c’è in un’immagine giornalistica? Il fatto che l’immagine sia stata scattata proprio là dove i fatti avvengono, senza mediazioni, la rende più vera?

Oh, questa è una buona domanda. Finalmente. Qualcosa che non cerca di appiccicarmi addosso una qualche definizione. Be’, guarda. Io credo di no. Credo che non necessariamente un’immagine sia più vera perché è scattata in presa diretta proprio dove avviene il fatto. Credo che il solo fatto di fermare il divenire degli eventi, di farne qualcosa di ripetibile, analizzabile, e poi un’icona, se necessario, trasforma il fatto in quello che non è. Anzi, spesso proprio l’apparenza di verità che hanno queste immagini nasconde irrimediabilmente la verità. Pensa a quel filmato… quello del ragazzo israeliano picchiato e tirato giù da un’automobile, sai, quel ragazzo che non ha reagito anche se aveva il fucile e poteva far fuori tutti i suoi assalitori. Be’, quel pezzetto di vita di un individuo qualsiasi in mezzo a altri sei miliardi è stato visto e rivisto, passato al telegiornale decine di volte, ogni gesto del ragazzo analizzato e giudicato, condannato senza appello da alcuni perché non aveva reagito come avrebbe dovuto, esaltato da altri per lo stesso motivo. E intanto, analizza e analizza, che fine ha fatto la verità in questo caso?

Mah… Non saprei. Che fine ha fatto?

La verità stava dentro il flusso di sangue frenetico che schizzava per le vene di quell’individuo. Dentro gli schizzi di adrenalina che gli drogavano il sangue. Dentro la pompa del cuore che si contraeva disperatamente. Dentro la sua carne mortale che piangeva la propria morte. Proprio lì dentro. Che cosa è rimasto di tutto questo dentro quel filmato? Poco. Probabilmente niente. C’è solo quel tanto che basta per concedere a chi guarda seduto in poltrona di giudicare. Troppo poco.

Ma allora, come si fa a restituire la verità?

Bisogna andare oltre la pelle. Essere sinceri fino alle ossa, fino alle budella. Lacerare veli. Essere fedeli alla carne.

Fedeli alla carne?

Sì. La carne mi ha sempre ossessionato. Quel colore sontuoso rosso sangue. Quelle screziature di giallo, le pieghe setose delle mucose. Il bianco dei denti. E’ disperatamente bello e caro.

E’ per questo che dipingi? Per dare corpo a questa ossessione?

Guarda, io non credo di essere un pittore. Probabilmente se avessi avuto orecchio avrei scritto musica. Ma io non sono uno musicale. Oppure magari avrei scritto poesie, se avessi avuto familiarità con la metrica, che ne so. E’ solo che sono disperatamente ricettivo. E dipingere, a un certo punto, è diventato il mio modo per restituire quello che ricevevo.

Non è un eccesso di modestia questo?

Non dire cazzate. E’ semplicemente sincerità. Io cerco sempre di essere sincero, il più sincero possibile. Ovviamente non sempre ci riesco. Però diciamo che ci provo.

E’ per questo che le tue opere sono così… disturbanti. Perché sono spaventosamente sincere. E’ come se tu cercassi in ogni modo… come posso dire. Di evitare il fascino, ecco.

E’ così. Il fascino è un velo che nasconde la brutalità del fatto. Io non voglio alleggerire, o abbellire. Io voglio solo dire le cose così come stanno. Nel modo più sincero e fedele possibile. Ovviamente in pittura questo significa essere fedeli alla carne più che alla pelle. Non mostrare ciò che appare, ma ciò che è. Anche a costo di una distorsione radicale dell’immagine. Ma deve trattarsi di una distorsione fedele. Più fedele di una copia fedele.

E’ per questo che ti sei arrabbiato quando ti ho chiamato Maestro? Per via di questa storia del fascino, voglio dire?

E’ per questo. Essere ricchi è comodo, per certi versi. Uno si può permettere delle cose piacevoli senza pensarci su troppo. Però essere famosi è una trappola. Si deve passare il proprio tempo a distruggere i veli che gli altri cercano di buttarti addosso. E’ faticoso.

Una volta ti sei definito intellettualmente pessimista, ma ottimista nel sistema nervoso. Che cosa volevi dire esattamente?

Niente. Solo quello che ho detto. Che le mie mani, il pennello, i colori sulla tela sono collegati con la mia parte ottimista, perché io cerco di dipingere direttamente con il sistema nervoso.

Vuoi dire che definiresti la tua pittura… una pittura ottimista?

Certamente.

Ma c’è chi la definisce… atroce.

Be’, sì. Può darsi. Ma si tratta comunque di un’atroce gioia. O forse, meglio, un’atroce gioiosa pietà.

C’è qualcosa in particolare che vuoi dire, per concludere questa intervista?

No. Mi hai già fatto parlare anche troppo. Pensavo che da queste parti non ci fossero pennivendoli parolai in circolazione. Ma vedo che d’ora in poi dovrò stare più attento a dare confidenza a chi incontro.

Ciao, Francis. Grazie, e buona fortuna.


Bibliografia su Francis Bacon

"Interviste a Francis Bacon", David Sylvester, ed. Skira
"Francis Bacon. La logica della sensazione", Gilles Deleuze, ed. Quodlibet
"Figurabile. Francis Bacon", a cura di Achille Bonito Oliva, ed. Electa

Francis Bacon sul web

http://it.wikipedia.org/wiki/Francis_Bacon_(pittore)
http://www.engramma.it/engramma_v4/rivista/galleria/38/galleria_bacon.htm
http://www.francis-bacon.com/
http://www.artsversus.com/francisbacon/


mercoledì 26 settembre 2007

Declinato al femminile su Delirio.net: interviste a Francesca Mazzucato, Maria Giovanna Luini e Fiorenza Aste

Il portale Delirio.net ha pubblicato un lunghissimo post dedicato alla collana delle Edizioni Creativa “Declinato al femminile”. La rassegna, curata da Eliselle, contiene tre interviste: a Francesca Mazzucato, curatrice della collana e autrice di “Magnificat marsigliese”, a Maria Giovanna Luini, autrice di “Una storia ai delfini”, e a me.
Ringrazio tanto Eliselle, e sono davvero felice di trovarmi nella stessa intervista con Francesca e con Maria Giovanna Luini!

martedì 25 settembre 2007

Recensione di Barbara Gozzi su Lankelot


La narratrice Barbara Gozzi scrive di “Cocci di bottiglia” su Lankelot. E lo fa in un modo dolce e appassionato, profondo e commosso. E per me estremamente commovente.
Sono nuova alla sensazione di esser letta. E’ una cosa che mi frastorna un po’. Ho già parlato, nel post che ho dedicato alla recensione di Gianfranco Franchi, della sensazione di timidezza e responsabilità che questo mi genera dentro. Vorrei, al più presto, approfondire con voi le origini e i perché di questa sensazione.
Ma per ora desidero raccontarvi qualcosa che mi ha colpita profondamente. Dice Barbara Gozzi nella sua recensione: “C’è questo frammento, fermo immagine, che mi ha avvicinata a "Cocci di bottiglia" prima ancora di sapere cos’era, prima ancora di decidere. Lo recupero ora che mi è tutto più chiaro, ora che so. Sabato pomeriggio a Bologna. Uno dei pochi reading a cui posso partecipare senza fare i salti mortali per lasciare il mio piccolo angelo a giocare (perchè per ora le letture ancora non lo interessano!), senza dovermi scervellare per far coincidere impegni e scadenze. Un sabato pomeriggio, dicevo, di inzio settembre. E una lettura potente, appassionante, devastante. Poi, nella semioscurità, in mezzo al brusio generale e alle opere d’arte appese un abbraccio. Una piccola magia tra due donne. E io lì per caso, sto per uscire alla ricerca della calma necessaria per assorbire l’urto. Un abbraccio che è l’essenza di questo romanzo. Due donne. Una era Francesca Mazzucato. L’altra Fiorenza Aste.”
Ecco. E’ la descrizione del primo incontro fra me e Francesca. Fatta da una persona a me allora sconosciuta, che ha assistito all’evento.
L’evento.
Io e Francesca ci siamo conosciute otto anni fa, per telefono. Dovevo intervistarla per la rivista “Storie”, per cui allora lavoravo.
Da lì, da quella lunga telefonata, è nata una delle amicizie più profonde e importanti della mia vita.
Ma io e Francesca non ci siamo mai viste.
Mai per otto lunghi anni.
Fino a quel sabato pomeriggio a Bologna.
Il primo abbraccio, commovente fino alle lacrime, fra due persone che hanno condiviso le profondità di se stesse. Che si sono viste fino agli abissi.
Ma non con gli occhi di carne.
Ecco. E Barbara era lì. Con noi.
Destino.
Grazie Barbara. Un caldo abbraccio.
E grazie per le tue calde sensibili parole.

Il bel blog di Barbara Gozzi, Progetto Butterfly, dove, fra i racconti della scrittrice e interessanti annotazioni personali sulle sue letture, trovate una generosa presentazione della collana “Declinato al femminile”, diretta da Francesca Mazzucato.

sabato 22 settembre 2007

Recensione di Gianfranco Franchi su Lankelot


Gianfranco Franchi, creatore e responsabile di Lankelot, bellissimo versatile blog che si occupa di arti e scienze, ha dedicato una intensa, penetrante recensione a "Cocci di bottiglia". Gli sono profondamente grata. La cura, la passione, l'intelligenza e la vastissima cultura che ha offerto al mio piccolo testo mi intimidiscono. Mi danno una sensazione di enorme responsabilità.
Franchi ha da poco pubblicato Pagano per le edizioni Il Foglio Letterario. Lo sto aspettando. E nell'attesa ho letto l'"Ombra della fontana", densa silloge poetica pubblicata sotto forma di e-book da Kult Virtualpress. Mi propongo di ritornarci sopra con tutta la calma e la concentrazione che questa raccolta merita. Intanto, un assaggio:

LA FORMA.

Malmesso inconcludente
manipolato spirito del niente:
la forma è corteccia,
decoro naturale.
Opera è metamorfosi;
leggenda contaminata,
sperimentazione impressa-
accudite parole, promesse.
Un ombrello di fiamme avanza
impietoso, e risoluto: riflessivo.
Sandali dialogano irrequieti,
atterriti e fragili osservano;
(seduti, in attesa)

il fuoco risparmia la terra,
difende la vita dal cielo.



LA MADRE DI MIA MADRE (il mio filo).

La madre di mia madre apparve
sedendo come Pizia nel salotto
le mani fasciate vaticinava

la morte
descrivere l'Inferno…
nascondeva liriche

nella scarsella della vestaglia,
terzine
del mio tempo e degli amori;

perso il respiro sfogliai
le sanguinose carte
i miei passi e i miei atti

addomesticati
mi parve tremassero
i suoi occhi vitrei.

mercoledì 19 settembre 2007

Cercando la chiave

Lavoro con lui quest’anno.
Sarà il mio compito. Il fuoco delle mie giornate.
Si chiama Riccardo. E’ piccolo, biondo e riccio. Piccolo davvero. Sette anni.
Sarà il mio allenatore, lui, quest’anno. Il mio maestro.
L’ho capito il primo giorno che ci siamo conosciuti. Io che vengo da anni di insegnamento, e che penso di avere dell’esperienza.
E lui, che mi sta di fronte e è. E’ al suo modo unico e senza possibilità di previsione. E’ in quel suo modo strano e sorprendentemente limpido e senza etichette da poterci appendere. E’, ogni giorno, sconcertante. E se provi un giorno a dare per scontate le cose che il giorno prima sembravano ovvie, lui ti insegna che non c’è niente di scontato.
Con gli anni ti fai l’esperienza. Conosci trucchi, e sai che funzionano. Sai che ci sono dei passaggi che puoi permetterti di saltare. I bambini ci arrivano. Tu sai come prenderli, e loro si lasciano prendere.
Non c’è scorciatoia con Riccardo. Niente trucchi. Niente cliché. Lui ti mette spalle al muro. E se vuoi trovare la chiave per aprire quel suo scrigno chiuso, ti devi mettere in cerca di nuovo ogni mattina.
Capita, a volte, che ti lasci a bocca aperta.
Un giorno ha detto grazie.
Così. Senza preavviso.
Un mutismo bianco come il latte, silenzioso e originario come quello di uno scoiattolo. E poi, così, fuori da quei denti e quelle labbra, questa cosa sorprendente. Questo fiore speziato, questa orchidea, questo agglomerato di fonemi complessi, irti e screziati, questo disorientante sconvolgente messaggio. Io ci sono qui dentro. Eccomi qui. Grazie.
Lui c’è lì dentro. Lo so. L’ho visto. Chiuso nel suo scrigno muto lui ti vede e ti capisce.
E io, adesso, ho la responsabilità di cercare la chiave.
Lui mi insegna a non usare scorciatoie.
E io cercherò di non usare trucchi.
Sarò onesta e lineare.
Lui questo vuole.
Ti chiama. Ogni tanto lo scopri con gli occhi che ti guardano fisso. Per un attimo. Pochi momenti. Poi di nuovo scappano, perché per un autistico il contatto degli occhi è troppo. Troppa vicinanza, troppa invasione.
E poi viene, ti si appoggia addosso di schiena, e si strofina tutto, come un orsetto.
Ti chiama.
Trovare, ogni giorno, il modo vero di rispondere.
Questo sono qui a imparare quest’anno.
Riccardo sarà il mio maestro.