domenica 24 febbraio 2008

Di fronte a Cézanne. Note libere a margine di una mostra.

E' vero. Con la "Casa dell'impiccato" improvvisamente qualcosa cambia.

Tocca le cose per la prima volta. Improvvisamente il corpo delle cose c'è. Prima non c'era e poi all'improvviso c'è.

La fatica. I piccoli progressi tecnici. I quadri in cui le cose non sono state toccate. Imperfetti, abortiti. Falliti.
E poi all'improvviso la rivelazione.
All'improvviso, tutta insieme, tutta insieme.

Sono molto stanca. Ho fatto tutto nel modo più faticoso. Forse era l'unico modo per farlo. L'unico modo per farlo in modo che servisse a qualcosa, intendo. Per poter mangiare, respirare Cézanne dovevo essere sola. Tutta sola in mezzo a questa selva di gambe e braccia e toraci, sola in mezzo a questa foresta di busti e teste che passano piano davanti ai quadri e li coprono e li svelano e parlano sottovoce lingue sconosciute e straniere.
Sola.
Sola per poter piangere senza dover spiegare niente.
Per poter toccare i quadri con le labbra le dita gli occhi la pelle la carne. Carne della mia carne ossa sangue e respiro inalato fino in fondo al torace.

Grazie perché tutto questo è stato fatto. Grazie perché c'è. C'è.

Cantare come un uccello questo canto immenso.
Cantare come lui ha dipinto. Mio dio.

La sua Madame Cézanne con la veste sontuosa che illumina il viso di bagliori verdi e azzurri. Il colore prezioso che cova sullo sfondo. Un oro denso e cupo. Fluido e pastoso. L'incarnato del viso soffuso di giallo. Prezioso. Denso. Racchiuso. Raccolto.


Il pennello che vaga sulla tela in modo cangiante. Sai che cambia ma non ne vedi il punto di rottura. Solo modula da una tonalità all'altra come la coda di un pavone.
Il viso lontano e eterno. Gli occhi antichi. Composti e fondi, eppure lontani come di chi sa senza dire. Senza bisogno di sapere.

Il verde e l'azzurro. Ci sono quadri in cui ci sono, ma non sono liberi. Sono velati, come trattenuti da una patina scura, frenati, nascosti.
Nascosti da uno schermo affumicato.
E poi all'improvviso alzi gli occhi e ti invadono.

Un sommergente straziante urlo azzurro ti ferisce al cuore.

E all'improvviso in un piccolo quadro c'è tutto.

Il ritratto di Choquet. Quel vagare compatto e modulato del pennello. Che cattura la luce, e la incarna, la stampa nelle cose. Nella carne delle cose. Materia fluida che modula da un colore all'altro. Che infinitamente si trasforma e resta sempre la stessa materia. Densa. Fonda. Fluida.

Lui prega mentre dipinge.
Dipingere è la sua preghiera. Il suo canto di uccello.
Questo so.

In questi quadri il verde e l'azzurro e il giallo denso e i rossi corposi cantano con voce acutissima, tanto acuta da essere a stento sopportabile. C'è bisogno di abbassare gli occhi e poi alzarli piano, e distogliere lo sguardo molte volte, per non restare abbagliati.

Per questo il primo giorno ho potuto solo piangere. Io non mi aspettavo tutto questo. E' stato troppo, tutto insieme. E sono rimasta abbagliata.
Sapevo di dover tornare. Sapevo che una volta non era abbastanza.
Dovevo tornare con la vista più salda e sicura, con fermezza. Sapendo.
Tornare a imparare.
Io so che valeva tutta questa fatica. Oh sì.
Oh sì.
Sì.

Lui sente il respiro nelle fronde. Il respiro fondo e vagante fra le foglie e nell'acqua densa e fluida che riflette e dà corpo.

L'acqua. L'acqua sembra avere una profondità che svela le cose. ne rivela la densità, ne esalta la corposità. Ciò che si riflette nell'acqua è più denso di ciò che viene riflesso.

La scura ombra sotto le fronde verdi. E' un'ombra che contiene tutta la luce del giorno, la cova e la trattiene nel cavo luminoso e buio del ventre della terra. E' un buio intriso di luce. Ombra fonda e luminosa.

E nonostante l'abbagliante chiarezza di questi quadri, sai che contengono una nota oscura, un punto di nero che si mescola ad ogni cosa. Qualcosa che alla lunga respinge lo sguardo, che non si fa penetrare. Compattezza impenetrabile.

Le cose. La loro pienezza. La loro presenza. La loro impenetrabile ostile violenta assenza di moto. Assenza di vita.

Presenza. Presenza.
Presenza.
Essenza.
Esasperante presenza.
E basta.

Il vaso blu.

Il grigio che non è mai grigio. E' un insieme vibrante di colori primari spezzati che tremano silenziosi dietro le cose.

Il vaso blu.

E poi alla fine la luce si fa più chiara e il velo sparisce. Vibrare di luce. Musica.
Chiara musica luminosa.

Donna con la caffettiera.

Presenza.
Pura densa quieta presenza.

E alla fine eccole, le bagnanti. Dopo tutta una vita di tentativi eccole.
Verde e blu vibranti e saettanti. E il rosa blu delle pelli che assomigliano all'acqua e all'erba.
Assomigliare.
Finalmente le ha fatte assomigliare.

La sua grande preghiera.
La sua grande cattedrale di rami e cielo e luce vibrante e acqua e pelle nuda e senza niente altro.
La sua grande cattedrale di luce.

Era indispensabile viaggiare totalmente soli.
Essere disancorati da ogni pensiero, privi di fascino a cui aggrapparsi, privi di coperture e difese.
Solo così si poteva vedere.
Ora lo so.
Ora so perché.

martedì 12 febbraio 2008

Renata Adamo recensisce "Cocci di bottiglia" su Lankelot

Renata Adamo parla di "Cocci di bottiglia" sul portale di scienza e cultura Lankelot, e lo fa con la mente e con il cuore insieme. La ringrazio profondamente per l'acuta attenzione che ha dedicato al testo, e per la capacità plastica di condensare il pensiero in immagini di grande suggestione ed efficacia.

venerdì 1 febbraio 2008

Forare la boccia di vetro

E poi un giorno ti accorgi che riconosce le lettere. Cinque lettere.
Ci hai lottato per mesi. Gliele hai proposte in tutti i modi, scritte, a computer, di legno, a incastro, magnetiche, a puzzle, e ora cominci a sentire che è inutile. Lui non parla. Forse questo insistere su suoni che non sa produrre non ha senso.
Alla logopedista hai detto "niente, non ci sono segni di associazione suono-simbolo ancora", e con questo volevi dire mi do per vinta. Va bene, allora ripieghiamo su obiettivi più concreti, tipo allacciarsi le scarpe. Oppure versare acqua da una bottiglia. Almeno quello gli servirà nella vita.
Lasciamo perdere. Aspettiamo. Rimandiamo.
E il giorno dopo lui forma la sillaba DA. Così, veloce. Sicuro. Tu glielo chiedi e lui lo fa.
Ecco.
Resti a guardarlo con la bocca aperta.
E poi ti vien da ridere.
Ti ha spiazzata anche questa volta.
Ma siccome non ci credi del tutto, gli chiedi di formare anche la sillaba DO.
E lui lo fa.
Resti a guardarlo in silenzio.
E ti si stringe il cuore.
Perché questo vuol dire che lui saprà parlare.
Lui saprà scrivere. E leggere.
Non importa quanto ci vorrà. Anni, ancora. Ma imparerà. Lui leggerà. Scriverà. Parlerà.
Forerà la boccia di vetro.
Saprà portar fuori quel che c'è dentro.
Glielo dici.
"Riccardo, tu imparerai a parlare."
Lui ti guarda.
E tu sai, lo sai, che capisce.