“Al passo delle Dolomiti la neve era altissima.
Il camion entrò in una magnifica galleria,
aperta in essa; e quando ne uscì, s’era nella Vallarsa.
Io la salutai con gioia, la Vallarsa,
e mi pareva d’esser tornato a casa mia.
Rivedevo tutti i miei monti:
erano candidi, e brillavano al sole.
Non mi erano mai apparsi così belli.”
CARLO PASTORINO, La prova del fuoco
E' sulle orme di
Carlo Pastorino che partiamo, domenica mattina presto, per salire sul Monte Trappola. Le letture di questi giorni ci hanno riempiti del desiderio di appoggiare i piedi sui sassi che hanno portato il peso anche dei suoi piedi.
La giornata è grigia: una spessa coperta di nuvole si appoggia sul Passo Buole e sullo Zugna, e ci fa da soffitto morbido sopra la testa.
Visto dalla strada della sinistra Leno, il Corno mostra la sua faccia seria; è un monte grave, senza vezzi, che non concede nulla alla leggerezza facile del pittoresco.
Non cerchi il Corno per riempirti gli occhi di scenari mozzafiato o di vedute seducenti. Lo cerchi perché vuoi conoscere. Capire. Ricordare.
Carlo Pastorino ci ha vissuto per quasi un anno, alle pendici del Corno. Dall'inizio di luglio del 1916 al 25 maggio 1917, quando verrà trasferito sul Carso, per essere poi fatto prigioniero il 4 giugno, durante la battaglia dell'Hermada.
Undici mesi sul Trappola, dunque. Questo ripido cono di pietra e sassi appoggiato di schiena al corpo del Corno. Più basso, sottomesso. Destinato quindi, per la sua stessa posizione, a subire senza riparo i colpi dell'esercito austriaco, che sul Corno rimarrà ininterrottamente fino al maggio 1918, cioé quasi fino alla conclusione della guerra.
Ne parla, Pastorino, di questa condizione misera, disperata, appena giunto a far da rincalzo alle truppe che quotidianamente venivano decimate sul Trappola:
"Non riesco a capire come abbiano potuto mandarci a occupare questa posizione che pare non avere alcun valore. Perché tanti sacrifizi? A chi e a che cosa giovano? Di qui non è possibile raggiungere la vetta; non solo, ma non si riuscirà neppure a turbare i sonni del nemico."
E poi, raccontando del gioco crudele a cui gli era capitato di assistere durante una fiera di paese, in cui ragazzi e fanciulle prendevano a bersaglio tre anatre legate a un'assicella di legno galleggiante sull'acqua, gli vengono spontanee queste parole:
"Qui sul Corno Destro, in questi giorni, (...) noi siamo bersaglio e null'altro. Bersaglio per il gioco dei Cacciatori delle Alpi. Essi sono sul ponte, appoggiati al loro parapetto; noi sulla passerella, legati a fior d'acqua, deboli e fragili. La nostra condizione è così pietosa che vien voglia di sospirare e di piangere. (...)
La mia carne e il mio spirito non ancora si son fatti duri e padroni della nuova vita. Eccomi uccellino sulla rama: misera cosa in balia del vento."
Arriviamo ad Anghebeni.
Qui c'erano le prime retrovie italiane. Il comando, il posto di medicazione, i magazzini. Il cimitero, che ancora adesso se ne sta lì circondato da un muretto basso di pietra e cemento, pieno delle vecchie croci di legno.
E da Anghebeni imbocchiamo la vecchia mulattiera che sale sul Trappola.
La stessa che Carlo Pastorino imboccò con l'amico Terrazzani, nel luglio 1916.
Il sentiero è spolverato di neve.
Non è passata settimana, quest'inverno, senza che nevicasse, qui in Vallarsa. Il Passo Pian delle Fugazze è stato a lungo chiuso per pericolo di distacco di valanghe, e nella parte alta della valle c'è la neve profonda un metro e ottanta. Ma qui, sulla destra Leno, ben esposta al sole, il terreno del bosco è coperto solo a chiazze. Specie sotto i pini la terra si mostra umida e rossa, con le erbe gonfie dell'acqua colata piano di sotto la coltre di neve.
Sui tronchi degli alberi, le pennellate rosse e gialle incise dalle corna dei cervi picchiettano la corteccia di macchioline chiare.
Saliamo piano. Ci godiamo il procedere, lento, dentro l'aria invernale. A tratti dal cielo scende qualcosa che non è acqua e non è neve. Sono minuscole palline di ghiaccio, che picchiano e rimbalzano con suono argentino sul nylon delle giacche a vento. Pioggia gelata.
Ci guardiamo intorno, mentre camminiamo. Osserviamo le brecce dei muretti a secco, e il terreno del sentiero. Perché qui il via vai era incessante, novant'anni fa. Un'intera città fatta di fanti e alpini e artiglieri e muli e cannoni e barelle e casse di munizioni e trasporti di vettovaglie era in movimento perpetuo su e giù per questi sassi. Trovare qualche traccia di questo imponente ininterrotto cammino è facile, se solo si presta un po' di attenzione.
E infatti dopo qualche centinaio di metri Mario raccoglie una scatoletta di ferro. Piccola, pesante, di metallo spesso, fatta tutta marrone dalla ruggine.
Un barattolo di carne del rancio.
La appendiamo al ramo di un faggio, e proseguiamo.
Arriviamo a quello che Mario chiama il punto panoramico. Uno sperone di roccia proteso verso la valle, coperto di cuscini di erica ancora addormentata nel freddo invernale, e di un'erba fine e pungente che a sedercisi sopra attraversa la stoffa dei pantaloni e pizzica la pelle.
E qui, sotto di noi, si apre tutta la valle. Tutta ancora bianca di neve. Tutta ancora fredda, e addormentata. Tutta racchiusa sotto il morbido cappotto grigio della coperta di nuvole.
Le Piccole Dolomiti, laggiù. Alte, scoscese, fitte di neve. Nascoste dentro le matasse grigie dei vapori e delle nebbie.
E poi Mario mi mostra qualcosa di cui non mi ero accorta. Il terreno, in questo minimo spiazzo proiettato sulla valle, è tutto coperto di minuscole barrette gialle, nascoste fra i sassolini e le erbe. Ne raccogliamo una manciata, grattando il suolo con le unghie, e la ammucchiamo sopra un sasso. Poi Mario fa scoccare la fiammella dell'accendino, e la avvicina al mucchietto, che prende subito fuoco.
"Era l'esplosivo con cui caricavano le bombe" spiega. "Qui c'era una postazione italiana."
E restiamo lì, in silenzio, a guardare il materiale che soffia arde e si consuma. A novant'anni di distanza, nonostante piova acqua gelata e il terreno sia tutto imbevuto di neve sciolta.
Poi ripartiamo.
C'è molta più neve sul sentiero, mano a mano che saliamo in altezza. Un lenzuolo bianco, soffice, che mostra con chiarezza ogni traccia di essere vivente che vi sia transitato sopra.
Ed è così che ci rendiamo conto di essere del tutto soli sulla montagna. In compagnia di camosci, cervi, volpi e altre creature selvatiche, che ci rimangono del tutto invisibili, ma che ci mostrano il loro via vai attraverso la teoria di piccole e grandi orme disegnate sulla neve.
L'unico a avere il coraggio di mostrarsi è uno scricciolo, piccolo e spudorato, che adesso ha preso gusto a seguirci, e salta di ramo in ramo a qualche metro da noi.
E noi procediamo in silenzio, emozionati. Nessun essere umano è passato per questo sentiero da parecchio tempo. Ce lo assicura la pagina vergine di neve che andiamo calpestando, badando a infilare uno il piede nell'orma dell'altro.
La neve aumenta, ora. Appoggiata a plichi bianchi sulle rocce e sopra il piede degli alberi. Ammucchiata a libri. Strati su strati dove puoi leggere la storia delle nevicate di questa stagione.
Camminare nella neve si fa via via più faticoso. La gamba sprofonda fino oltre il ginocchio, e il sentiero si arrampica sempre più ripido.
E allora rallentiamo. Procediamo calmi, tranquilli, lasciando che sia il ritmo del respiro a dare il tempo al passo. E quando il fiato ci richiede di fermarci, ci fermiamo.
E intanto pensiamo ai soldati.
Gli inverni fra il '15 e il '18 furono fra i più duri di tutto il secolo. Caddero metri di neve. E loro vivevano qui, all'aperto. Dentro baracche di legno appoggiate al fianco della montagna. Dentro cunicoli incisi nel corpo della coltre nevosa. O dentro buchi nudi, gli
stoi, scavati nel duro della roccia.
Ancora Pastorino:
"In certe limpide notti salgo al Sogi e al Pasubio: e, giunto, cammino sotto grandi volte di neve. Tra i Sogi e il Roite v'è un terreno pianeggiante: ivi le gallerie aperte nella neve sono lunghe, contorte e, in terra, qua e là, son stese stuoie sulle quali si sdraiano i soldati. In queste gallerie l'aria è molle e tiepida, perché si evita, per quanto è possibile, che vi si creino correnti d'aria: e quando una granata abbia aperto un fianco o fatto crollare una volta, è cura di correre a ripararvi. C'è fetore, e la vita, come nei camminamenti coperti, vi è piena di pericoli e d'incertezze. (...)
Il salire quassù è faticoso; si cammina gran parte della notte e si giunge col sole alto. Nell'ultimo tratto del sentiero, ripido e difficilissimo, il gelo non si stempera mai. Soffiano venti rigidi. Salendo, i soldati s'aggrappano con le mani e puntano col bastone ferrato: ma, a tratti, uno di essi - e altri ne trascina! - eccolo rotolar giù spaventosamente e piombare, a pezzi, nel precipizio. Vedo lacrime di uomini che, come nel Cocito di Dante, si congelano al lato degli occhi. (...)
Dalle vette più alte e dalle feritoie delle gallerie vedo anche alcuni versanti di monti tenuti dal nemico. Osservo i sentieri aperti fra la neve, dove lunghe teorie di puntini neri si muovono. Sono uomini: i nemici. Rimango lì a lungo col binocolo agli occhi; e penso: poveri nemici, essi, là, soffrono come noi, qui. Anch'essi camminano nella neve e anch'essi versano lacrime furtive: e le lacrime si raggelano all'orlo degli occhi. Salgono lentamente, affaticati: portano pesi sulle spalle: munizioni e viveri. Salgono alla loro linea la quale, a guardare di qui, è visibilissima: è anch'essa simile a una serpeggiante viottola di talpa, a pochi metri dall'altra, la nemica, che è la nostra. Perché noi, per essi, siamo i nemici."
E poi saliamo l'ultimo tratto, una cinquantina di metri in cui il sentiero si arrampica quasi verticale fino alla cresta del Trappola. La neve si è ammucchiata in cumuli spessi in cui sprofondiamo fino all'inguine.
Procediamo un passo alla volta. Lenti. Senza fretta.
La pioggia gelata si è ora trasformata in una neve fine, che cade fitta a minuscoli fiocchi bianchi.
E poi, ecco la bocchetta. Siamo sulla cresta.
Il Corno, enorme e incombente, ci mostra la sua grigia prua di nave da guerra.
Abbiamo fame. E' mezzogiorno ormai. Nevica fitto adesso, e abbiamo bisogno di un posto dove riposarci e mangiare.
Troviamo un ampio stol ramificato, munito di diverse entrate, proprio sotto al punto in cui, sepolto sotto la neve, si trova il cordino per salire al Cappuccio di Pulcinella.
Avremmo voluto arrivare almeno fino lì, perché dalla cima del Pulcinella si gode di una magnifica vista sulla valle. Ma la neve è ancora troppo alta.
Sarà per la prossima volta. Per oggi ci accontentiamo di far tappa nello stol prima di tornare a valle.
Accendiamo il fuoco.
L'idea del calore confortevole della fiamma ci alletta moltissimo; ma dopo pochi istanti le gallerie si riempiono di un fumo denso che rende l'aria irrespirabile.
Le imboccature dei cunicoli sono quasi completamente ostruite dalla neve, e l'aria non può circolare liberamente.
Dobbiamo rinunciare al fuoco. Lasciamo che la fiamma si spenga piano piano, e cominciamo ad affettare il pane, il formaggio ed il salame che ci siamo portati da casa.
Mentre mangiamo frughiamo con gli occhi il terreno. Ed ecco una piccola striscia marrone: mi sembra metallo arrugginito, e invece, a prenderla in mano, si rivela essere morbida e pieghevole. E' una striscia di cuoio. Una cintura forse. O magari una fibbia.
Continuiamo a mangiare, in silenzio, seduti per terra sul cuscino di foglie secche, mentre il gelo risale piano lungo le gambe.
Sono le due di pomeriggio. E' ora di rientrare. La notte fa presto a scendere in queste corte giornate invernali.
Ma torneremo a farci condurre fuori dai sentieri segnati dalla voce di Pastorino. Sulle tracce di quest'uomo che riuscì a guardare ogni cosa attraverso la limpida umana profondità del cuore. Anche qui, nell'estrema durezza della natura, sotto la grandine di ferro della Grande Guerra.
"Ho sempre amato la montagna, ma questa la amo in modo strano, ardente ed esclusivo. Oserei dire che essa mi abbia avvelenato il sangue. Ogni pietra mi par mia: mio ogni cespuglio. Che sia perché ogni pietra e ogni cespuglio son rossi di sangue?E noi sappiamo di quale sangue siano rossi? Che sia questo? (...) Il nostro amore non può esprimersi a parole. E' tale che ci fa patire. Ma non è neppure più amore: è passione, dolore, spasimo. (...) Questi taciti e rassegnati cercatori di pidocchi son più alti degli eroi di tutti i poemi. (...) Ecco perché non si riesce a far su il nostro zaino, ad allacciare le nostre fasce, a prendere il bastone ed avviarci. Com'è possibile? Come poter dire "Addio, dunque; voi rimanete, io me ne vado?"
CARLO PASTORINO, "La prova del fuoco"