martedì 17 giugno 2008

Guarire.

Ah, non è così, è il contrario!
Non da fuori a dentro, ma da dentro a fuori!
Ah, sciocca, sciocca, sciocca!
Dimentichi quel che sai. L'unica cosa che vale la pena di sapere.
Che non c'è niente da sapere.
Non hai, non sai, non vuoi.
Sei quello che sei, e questo è abbastanza.
Sta in mezzo a quello che è.
E ridi! E gioca!
E canta!
Canta con tutto il fiato che hai in corpo.
Lasciati suonare da dio.
Dio mio.
Come ho fatto a dimenticare?
E' stato tornare nel mondo. Ho pensato che non ci fosse altra scelta che giocare secondo le regole del mondo.
E invece il gioco non ha regole. Non sta in terra di compravendita. Non conosce dare o avere.
E invece il gioco è un gioco di bambino.
E invece questo è il gioco di dio.
Ah, dio.
Aiutami a giocare senza voler comprare.
Aiutami a giocare senza voler vendere.
Aiutami a danzare.
Senza pensare.

giovedì 12 giugno 2008

Lei.

Non sa perché il tutto prenda questa forma.
Sa solo che è così. Le si materializza dentro un’immagine scura, chiusa. A volte un corridoio largo, con quelle luci al neon troppo bianche, che fanno sembrare le facce livide e le labbra viola. Certe volte invece una specie di androne buio, come quei cavedi immensi dei centri commerciali, dove si affacciano le scale mobili e gli ingressi di tutti i negozi.
Non è un posto preciso. E’ più una specie di idea primitiva, di archetipo di un posto. E mentre lo vede sa che è il condensato di tutto quel che è triste e desolato.
Non smette di fare quello che sta facendo durante queste improvvise visioni. Per esempio continua a sistemare le gerbere dentro il vaso bianco, e le allarga a ventaglio con le mani finché ogni capocchia non si vede bene. Non ama molto le gerbere. Le fanno pensare troppo alle margherite. E, non sa perché, ma le margherite non le sono mai piaciute. Ha sempre pensato che sono un fiore triste, anche se non saprebbe spiegare il motivo. Ma le sue clienti amano le gerbere, forse perché fanno tanta figura, sono larghe e colorate, così rosa e occhiute, e ne bastano poche per riempire il mazzo.
Lei ama fiori più semplici. I tulipani, per esempio. Così nitidi, così ridotti all’osso. Un fiore a forma di bicchiere, un gambo carnoso, e basta. Ne porterebbe a casa mazzi interi, fasci, bracciate, se potesse. Ne riempirebbe i vasi di vetro fino a comprimere gli steli grassi contro le pareti trasparenti, fino a non far restare posto per l’acqua. Le piace come si premono una addosso all’altra le corolle, con quel rumore turgido di tessuti carnosi gonfi di linfa.

mercoledì 11 giugno 2008

Piove.

Piove.
Sull'asfalto e sui cespugli di fiori bianchi.
Fra le pozzanghere che ingorgano la terra incapace di bere crepitano cespi di erba rigogliosa.
Guardo salire le nuvole fra i fianchi di questa valle. Seguo gli scrosci grigi che scendono a tende sul bosco e sulle rocce. Teli di pioggia fini che si impigliano sulla cima del Corno, stracci di nuvole color della cenere che si disfano sopra la mia testa, su fra le foglie strappate via dal vento.
Il tuono che rotola. I lampi giù, in basso. I fari delle macchine che risalgono su per la valle, piano, fendendo cauti il vapore grigio.

Sotto i rami fini inquieti della betulla che sventola le sue foglie piccole dentro il vento, all'improvviso so che non ho niente.
Sono grata. A loro, che sono. Al loro mostrarsi. Al loro esistere.