giovedì 12 giugno 2008

Lei.

Non sa perché il tutto prenda questa forma.
Sa solo che è così. Le si materializza dentro un’immagine scura, chiusa. A volte un corridoio largo, con quelle luci al neon troppo bianche, che fanno sembrare le facce livide e le labbra viola. Certe volte invece una specie di androne buio, come quei cavedi immensi dei centri commerciali, dove si affacciano le scale mobili e gli ingressi di tutti i negozi.
Non è un posto preciso. E’ più una specie di idea primitiva, di archetipo di un posto. E mentre lo vede sa che è il condensato di tutto quel che è triste e desolato.
Non smette di fare quello che sta facendo durante queste improvvise visioni. Per esempio continua a sistemare le gerbere dentro il vaso bianco, e le allarga a ventaglio con le mani finché ogni capocchia non si vede bene. Non ama molto le gerbere. Le fanno pensare troppo alle margherite. E, non sa perché, ma le margherite non le sono mai piaciute. Ha sempre pensato che sono un fiore triste, anche se non saprebbe spiegare il motivo. Ma le sue clienti amano le gerbere, forse perché fanno tanta figura, sono larghe e colorate, così rosa e occhiute, e ne bastano poche per riempire il mazzo.
Lei ama fiori più semplici. I tulipani, per esempio. Così nitidi, così ridotti all’osso. Un fiore a forma di bicchiere, un gambo carnoso, e basta. Ne porterebbe a casa mazzi interi, fasci, bracciate, se potesse. Ne riempirebbe i vasi di vetro fino a comprimere gli steli grassi contro le pareti trasparenti, fino a non far restare posto per l’acqua. Le piace come si premono una addosso all’altra le corolle, con quel rumore turgido di tessuti carnosi gonfi di linfa.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Un altro dei tuoi racconti preziosi, carnali. Il rumore dei tulipani stretti l'uno contro l'altro l'ho sentito.
Bravissima, come sempre.

sabrina

Fiorenza ha detto...

Cara. Ti ringrazio.
Un tulipano a te. Bianco.
Fiorenza