lunedì 26 maggio 2008

Cerchiamo di non dimenticare...

Emigranti italiani a Ellis Island, USA


Mio padre è stato lasciato solo con una nonna stramba che lo legava alla gamba di una sedia e poi usciva di casa per ore intere, quando aveva tre anni. Ha passato gli anni della sua infanzia più tenera con questa donna buona ma balorda, per niente adatta a prendersi cura di un bambino piccolo. E potrei enumerare un bel mucchietto di esperienze così dure e traumatiche, che a paragone un David Copperfield è un dilettante. E questo perché i suoi genitori, ovvero i miei nonni, furono costretti dalla fame e dalla miseria a emigrare in Francia.


La mia nonna materna, invece, è nata a Chicosa, in Colorado. Lei è stata più fortunata. Ha fatto una vita libera là, in mezzo a coyote e praterie sconfinate, e aveva sempre un'abbondanza di aneddoti profumati di aria e di erba da raccontare. Ma ciò non toglie che anche lei fosse là perché i suoi erano stati costretti a emigrare dalla fame e dalla miseria.


Io ho parenti in Argentina, negli Stati uniti, in Francia e in Belgio. E come me ce l'hanno il 99 per cento delle famiglie italiane.


Siamo un popolo che solo da pochi decenni ha smesso di andare per il mondo a guadagnarsi il pane quotidiano.


Anzi, diciamola chiara. Siamo un popolo che fino a una cinquantina di anni fa aveva le pezze al culo. Al nord come al sud. E l'unico modo che i nostri padri, madri, nonni, zii, avevano a disposizione per mettere il pranzo insieme con la cena era mollare tutto, sradicarsi da casa, lasciare gli affetti più cari e andarsene in qualche angolo sconosciuto del mondo a cercare un lavoro qualsiasi. In miniera magari. O come lavapiatti. O come lavoranti nella costruzione delle strade ferrate. Cioè tutti quei lavori che gli abitanti dei paesi ospitanti non volevano svolgere. Perché troppo umili, o troppo duri. O troppo pericolosi.


Ma perché sto dicendo questo?


Perché molti, ora, sembrano dimenticarsi di tutto questo. E di fronte al drappello di disperati che varca le nostre frontiere e cerca casa, lavoro, cibo, un po' di sicurezza, si comportano come se il nostro passato non fosse mai esistito. Forti di una sicurezza e di un benessere costruiti in buona parte dalle mani di nonni emigrati in qualche paese straniero, se la prendono, ora, con chi è costretto dal destino a seguire gli stessi passi dolorosi.


Perché, via, non raccontiamocela. Questa gente se potesse resterebbe molto volentieri a casa sua. Chi glielo fa fare di lasciare la propria casa, i figli, i genitori, la gente che parla la loro lingua e che condivide con loro ricordi, religione e abitudini, per andare in un posto straniero dove la gente li tratta con sufficienza quando va bene. Con odio quando va meno bene. Bruciandogli le baracche o i negozi quando proprio bene non va. Chi glielo fa fare, dicevo, se non la fame la miseria e la disperazione.


Non è una scelta. E' una necessità. Una condanna.


Leggiamo "Il muro dei muri" di Carmine Abate, se vogliamo ricordarci cos'è stata, la nostra emigrazione. Fino a pochi, pochissimi anni fa. E cerchiamo, per piacere, che questa lettura ci penetri dentro, e ci permetta di guardare con altri occhi il marocchino o il rumeno o l'albanese che incontriamo per strada. Lasciamo che questi scarni racconti ci rinfreschino la memoria, ci risveglino la consapevolezza. E' la stessa umanità dolorosa che percorre lo stesso doloroso sentiero.


Non è cambiato niente.


Solo che allora noi stavamo nei panni delle vittime.


Ora che siamo grassi e sazi, invece, spesso ci piace stare in quelli del carnefice.

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