giovedì 29 maggio 2008

Un racconto di Renata Adamo

E' con grande piacere (misto a una certa dose di orgoglio, perché negarlo?) che vi propongo questo bellissimo racconto di Renata Adamo.
Ne amo il rigore e la coerenza, che fanno della protagonista, Rita Mantegazza, sessantenne professoressa di matematica che nasconde da sempre un terribile segreto, una figura di silenziosa, ordinaria tragicità.
Non vi nascondo la mia simpatia per Rita, capace di trovare una sua tortuosa via alla felicità dentro l'inferno che il destino le ha assegnato per vita.
Un grazie di cuore a Renata Adamo per aver scelto di pubblicare in questo blog.
Ma ora taccio, e lascio parlare il racconto.

IL PRIMO GIORNO DI QUIETE

Oggi, dopo trentacinque anni di servizio, vado in pensione.
E’ il primo settembre. Le vacanze volgono al termine. I ragazzi rientreranno a scuola. Io non vi rientrerò. Nel pomeriggio, io e gli altri colleghi pensionati verremo festeggiati dal corpo insegnante e dal preside.
In questi anni ho insegnato matematica. Mi sono passate davanti generazioni di studenti. Non condivido l’opinione secondo cui vi sia grande differenza tra i ragazzi che si succedono tra i banchi di scuola. Gli studenti che si appassionano alla matematica sono pochi e ancor meno quelli che sanno coglierne l’intima bellezza non disgiunta dall’inesorabile logica.
Nei miei corsi ho sempre mantenuto un registro alto: chi era in grado di capire, capiva. Selezionavo. Non mi è mai importato nulla dei ragazzi svogliati, che avrebbero ottenuto, bene che fosse andata, risultati mediocri. Dopo i primi anni d’insegnamento avevo raggiunto un mio metro di giudizio che non ha subito, nel corso del tempo, null’altro che qualche lieve ritocco, qua e là. Questo giudizio consiste in una sola parola: vocazione. E la vocazione non s’impara.
Date queste premesse, dai miei studenti non ho preteso nulla di più dell’essenziale. Volevo che s’intuisse il senso della disciplina e solo marginalmente il calcolo. Il calcolo non essendo altro che un mezzo, una tecnica d’applicazione del linguaggio della matematica.
Sono stata un’insegnante poco tollerante e per nulla materna. La mia figura alta, i capelli scuri tagliati corti, il naso aquilino e la severità del mio aspetto, mi hanno facilitato le cose. Sapevo mettere soggezione: una qualità del mio temperamento che mi è sempre garbata parecchio. Ero temuta dagli studenti e non particolarmente amata dai docenti.
Una combinazione di fattori, questa, che si è rivelata vincente perché mi ha consentito di tenermi a distanza da colleghi seccanti e da genitori lagnosi.
I pochi allievi che hanno saputo appassionarsi al mio lavoro senza lasciarsi fuorviare dal mio piglio austero, hanno avuto tutti un’ottima riuscita.
Ho conservato un diario con una scheda su ognuno di loro, con a margine, scritte di mio pugno, le mie osservazioni personali.
Conservo questo diario in un cassetto chiuso a chiave. Lo prendo fuori e lo apro mentre gusto con piacere la mia seconda tazza di caffè. Sono seduta alla scrivania e dietro la finestra sento, attutito, il rumore del traffico. Avverto lungo le scale del condominio il passo frettoloso delle persone che si affannano per non far tardi al lavoro.
Tutto questo per me è storia di ieri. Io non ho fretta. Il tempo del quale dispongo ha dilatato i suoi confini: fino dove, non so. E’ una cosa che sperimenterò da ora in avanti. A partire da domani. Oggi mi attende una festa a scuola. Una festa d’addio.

Sfoglio il diario con curiosità: ecco, ad esempio, ciò che mi disse l’alunna Dal Pero Simonetta, oggi docente di filosofia della scienza all’università di Pavia, quando affrontai in aula il tema della casualità.
La data è il 13 novembre 1979. Affermai in quella occasione che la matematica è in grado di svelare il gioco delle casualità
Del Pero Simonetta mi oppone che “Se non c’è casualità non c’è destino”.
Se non mi chiamassi Rita Mantegazza, nome che mio malgrado, è assurto anni fa, agli onori della cronaca nera, non avrei esitato ad affermare che, con un’approssimazione vicina allo zero, quasi tutte le azioni umane sono prevedibili.
Risposi invece che nel gioco degli eventi non si può prescindere da un ridotto margine di casualità.
La studentessa non colse quest’ultima suggestione e aggiunse che se quanto prima avevo affermato era vero, gli eventi dolorosi, in quanto prevedibili, erano pure evitabili.
“Quelli dolorosi, mai”, risposi.
Era una risposta precipitosa della quale mi pentii subito.
La reazione della studentessa non tardò ad arrivare.
“Professoressa”, disse, con la crudele perspicacia dei giovani, “cos’è il dolore secondo lei?”.
“Il dolore”, risposi, “è un abuso”.

Ho sessant’anni.
Sessant’anni non sono una brutta età. Quello che è fatto è fatto. Questa constatazione, lungi dal deprimermi, mi consola. Ho diritto alla stanchezza. Vi sembra poco?
Cosa indosserò questo pomeriggio per la festa in onore di noi pensionati?
Il tailleur blu che mi slancia, la camicetta di seta bianca, quella plissettata, con il collo rotondo, un giro di perle autentiche.
Sono incerta sugli orecchini. Quelli a goccia che fanno pendant con la collana, m’allungano troppo il viso e mi danno un’aria cavallina. Dovrò rinunciarvi. Tutti a scuola sanno - io per prima - che la mia risata suona come un nitrito.
Dovrò fare attenzione al vino. Dopo il terzo bicchiere la mia natura vivace ha il sopravvento. Mi metto a ciarlare in libertà. Divengo, se possibile, ancor più caustica, e in questo modo mi procuro tremende inimicizie.
Le scarpe di camoscio blu, quelle con il decolté traforato e il tacco a punta, si combinano a meraviglia con il tailleur.
La mia figura si è mantenuta snella. Ammetto d’andarne fiera. Non ho mai tinto i capelli che ho folti e tagliati corti. Oggi sono sale e pepe ma sono vaporosi e vivi come a vent’anni. I miei occhi non hanno perso la loro lucentezza. Le rughe, al contrario, ci sono tutte. Non me ne preoccupo. Preoccuparsi delle cose inevitabili è tempo perso.
Considero il fatto di essere giunta a sessant’anni, in buona salute, una fortuna.
Considero il fatto di aver vinto la paura, qualsiasi nome le si voglia dare, un mio successo personale.

Scosto la tenda della finestra che dà sulla strada.
C’è una carrozzina dietro il cancello di casa.
Una carrozzina blu.
Non mi piacciono le carrozzine. Mi ricordano quella che mi trascinavo nel giardino di casa quando ero bambina. Era una vecchia carabattola che avevo scovato in cantina. Dentro vi tenevo la mia bambola Mimì.
Bevo il caffè rimasto nella tazza. E’ freddo. Fa freddo pure in questa stanza. Devono essere le prime avvisaglie d’autunno.
Letizia Maniscalchi, la vice preside e mia cara amica, anche lei insegnante di matematica, mi ha cercato qualche giorno fa per chiedermi se ero disposta a dare lezioni a studenti dei corsi serali.
“Saresti pagata come consulente”, ha detto, “senza contare che in questo modo riempiresti le tue giornate”.
E perché mai dovrei riempire le mie giornate? Hanno tutti la fissazione di dover riempire le giornate, salvo poi lamentarsene. E qualora io le volessi vuote, ripulite dal ciarpame che ho accumulato negli anni?
Non risposi in questo modo. Dissi che vi avrei pensato ma dentro di me sapevo di non avere la minima intenzione di curare un bel niente, meno che mai un corso serale per studenti.

La carrozzina è ancora lì.
Perché non vengono a riprendersela? E’ un vecchio attrezzo con le gomme sghembe per nulla diverso da quella che avevo ricevuto in regalo da mio padre tanto tempo fa perché la smettessi di frignare e di stargli tra i piedi per ottenerlo.
I bambini mi hanno sempre annoiato. Io non ho voluto figli perché non ho perduto la memoria di me, bambina.
E’ opinione diffusa che i bambini siano angeli. Io non lo ero affatto. Avevo pensieri tremendi, tutti rivolti al male. Vi dedicavo a profusione le mie energie e allo stesso modo, per quanto mi ricordi, si comportavano gli altri ragazzetti.
Scosto di nuovo la tenda.
Nessuno è venuto a riprendersi la carrozzina. Deve appartenere a qualche zingara che l’ha abbandonata davanti al cancello.
Che vi abbia abbandonato pure il suo moccioso? Quel genere di donne è capace di tutto.
Apro la finestra e sto in ascolto. Non sento piangere. Nessuno che si lamenti. La zingara avrà preso con sé il piccolo per andare in giro a mendicare con maggior profitto.
Ora mi vesto e scendo a vedere.
E se invece citofonassi alla portiera?
“Signora Zirpoli”, per cortesia, può uscire a vedere se c’è un marmocchio nella carrozzina dietro il cancello di casa?”.
Ma che mi salta in mente? Ci manca solo quella ficcanaso, linguacciuta, che appena volto le spalle mi dà di acida zitella.
Acida sarà lei. E grassa. E ignorante.
Già immagino la sua risposta:
“Come, professoressa? Ah, la carrozzina dietro il cancello? Sì, l’ho notata anch’io. Dentro potrebbe pure esserci una bomba. Con i tempi che corrono non si può mai sapere! Pensi che l’altro giorno mio genero….”.
E giù a cianciare su suo genero. Meglio lasciarla perdere.
Ad ogni modo quella carrozzina là fuori m’innervosisce. Fosse stato un allegro passeggino, lindo, rassicurante, non l’avrei neppure notato.
A chi può interessare un’anticaglia come quella?
Giusto a un rigattiere.
E a nessun altro.
Ad esclusione di me.
A me, quella carrozzina interessa parecchio.

Gli adulti non immaginano di cosa sono capaci i bambini.
Sono troppo pigri per farlo.
So di cosa parlo. Devo alla cecità dei grandi la mia fortuna. Qualora, al tempo dei fatti terribili che accaddero, gli adulti non si fossero tenacemente aggrappati ai loro pregiudizi circa l’innocenza degli infanti, io non li avrei giocati.
La mamma sarebbe finita in carcere.
In carcere o in manicomio.
E quest’idea proprio non potevo tollerarla.

Quel giorno di cinquantuno anni fa c’era la mia sorellina Celeste nel capanno degli attrezzi.
Io mi tenevo alla larga da quel luogo perché all’interno era buio e vi dimoravano i pipistrelli. Oltre a quest’inconveniente c’era il divieto di mio padre a sostarvi perché dentro vi teneva granaglie, veleno per topi, e altri strumenti per il giardino che si divertiva a curare personalmente.
Erano i primi giorni di settembre, una bella giornata, non diversa da quella di oggi. La scuola doveva ancora iniziare. Io trascinavo la mia carrozzina blu per il giardino con dentro la bambola Mimì.
La porta del capanno era accostata.
La cosa mi stupì perché il babbo era assente e non permetteva a nessuno di usare la chiave del capanno.
Rimasi incerta sul da farsi. Tenevo gli occhi fissi sulla porta e facevo andare avanti e indietro il manubrio della carrozzina.
Chiesi a Mimì quale fosse, a suo parere, la cosa migliore da fare, benché già conoscessi la risposta.
Dovevo entrare a vedere. Ero una bambina coraggiosa. L’ometto della mamma, il suo soldatino di ferro.
All’interno tutto sembrava in ordine. I sacchi di granaglie erano al loro posto, gli attrezzi da lavoro non erano stati toccati. Esaminai ogni cosa, fino negli angoli, benché il timore dei pipistrelli fosse forte. Ad essere sincera mi crocchiavano le ginocchia. Lì dentro c’era qualcosa di freddo. La sensazione epidermica che provai è ancora viva in me. Quel freddo annunciava qualcosa di più pauroso del timore dei pipistrelli. Una cosa forse troppo grande perché la potessi affrontare. Questo lo capivo. Così come mi era chiaro che avrei dovuto filare via da quel posto il più lontano possibile.
L’impulso a fuggire era ragionevole e sbagliato insieme. Se fossi fuggita avrei smentito l’idea lusinghiera che la mamma aveva di me: ero o non ero il suo soldatino di ferro?

Tornai a guardarmi intorno, risoluta a portare a termine la mia indagine: non mancava nulla, ogni cosa era al suo posto. Mi sedetti sul baule nel quale papà conservava il veleno per topi e che pertanto teneva chiuso con il lucchetto.
E il lucchetto non c’era.
Sollevai a poco a poco il coperchio del baule. Mentre lo facevo, una sola domanda mi urgeva sulle labbra: la mamma è pazza davvero?
Celeste era piegata su un fianco, in una posizione curiosa. Sotto il suo corpicino c’erano i sacchi di veleno per topi. Aveva gli occhi azzurri, aperti. Sembrava guardare con insistenza un punto sul soffitto, tanto che sollevai la testa per vedere cosa vi fosse lì, di così interessante. Lo sguardo di lei più che spento sembrava distratto. Celeste aveva tre anni meno di me e altre volte avevo visto quello sguardo sul suo volto sicché non riusciva ad entrarmi in testa l’idea che fosse morta.
La scrollai per vedere se reagiva: era rigida come un sasso e gelida. Fu una sensazione orribile, peggiore di quella che provai quando presi in mano la rana morta che mi aveva gettato in grembo, poco tempo prima, Luigino, il figlio del fattore, per farmi uno dei suoi scherzi.
Indietreggiai fino alla soglia del capanno. Le ginocchia battevano l’una contro l’altra producendo un rumore che allora mi sembrò intollerabile. Rimasi sulla soglia. Tremavo da non riuscire a reggermi in piedi. I suoni e i rumori del giorno non erano cessati a causa della mia scoperta. Com’era possibile? Tutto il mondo, là fuori, avrebbe dovuto ammutolire davanti alla cosa oscura che giaceva nel buio del capanno. In quel baule non c’era più Celeste ma qualcosa che non avevo le parole per esprimere. L’unica certezza era che si trattasse di una presenza malvagia che mi aveva afferrato e penetrava in me come una lama di coltello.
Il sole, oltre la soglia del capanno, mi scaldava la schiena. Fuori c’era il mondo di ogni giorno. Mi bastava fare un solo passo indietro e la mia vita avrebbe preso una direzione diversa: ordinaria e prevedibilmente felice.
Fu il soldatino di ferro a prendere la decisione di ritornare al baule.
Sollevai di nuovo il coperchio. Celeste non si era mossa. Continuava ad osservare il punto sul soffitto. Raccolsi il mio coraggio per familiarizzare con la cosa che era stata Celeste. Non era più la sorellina ma una nemica mia e della mamma.

Amiche, io e Celeste, non lo eravamo mai state.
Troppo diverse l’una dall’altra. Lei così bionda, con occhi azzurri che le fiorivano sul viso, la pelle rosea e delicata. Il corpo esile.
Per quale misterioso gioco del destino mi era toccata in sorte una sorella come lei? Non avevamo nulla in comune. D’altronde che non avessimo nulla in comune era una litania che sentivo ripetere da chiunque venisse ospite in casa. Quel ritornello stava a significare che Celeste era bella bella bella, io, non proprio brutta ma insomma, così, così.
Aurora, la nostra tata, una ragazza del paese che faceva anche le faccende di casa, l’adorava. La mamma era sempre troppo stanca per occuparsi di noi. Se ne stava chiusa nella sua stanza e vedeva molti dottori.
Aurora andava in sollucchero per Celeste: se la prendeva in braccio, la maneggiava come una bambola. In effetti Celeste aveva qualcosa della fissità delle bambole. Aurora le cantava canzoni, (aveva una bella voce, questo lo devo ammettere); la vestiva con stoffe di organdis e nastri nei capelli. Celeste lasciava fare. Le piaceva incantare la gente. Pure mio padre era infatuato dalla sua bellezza.
Lei godeva nell’apparire all’improvviso davanti agli amici di papà, come un piccolo angelo. E quelli, come lei si mostrava, ammutolivano:
“Questa bimba è un angelo! Un angelo del paradiso, ingegner Mantegazza, questo lo comprende vero?”.
Lui assentiva sorridendo con garbo mentre Celeste faceva la ruota torno torno.
Un angelo? Avrebbero dovuto conoscerla meglio! Quella tutto era meno che un angelo. A volte avrei voluto sollevarle la gonna per mostrare agli ospiti la coda biforcuta che teneva arrotolata tra le natiche. Però quest’ultima era una mia fantasia. Una fantasia consolatoria.
Al contrario di Celeste, io ero bruna, scuretta di pelle, già piuttosto alta e spigolosa. Mi piacevano i calcoli e la matematica. Amavo la geografia e i viaggi avventurosi. Non avevo nulla di romantico nel mio aspetto e in qualche modo ne soffrivo. Ero convinta tuttavia che mia sorella non potesse starmi alla pari, quanto a intelligenza e scaltrezza.
Lei, nei miei confronti, aveva un comportamento curioso. Non si mostrava ostile ma quando i nostri sguardi s’incrociavano, nei suoi occhi lampeggiava una canzonatura che riusciva a farmi infuriare.
Anni prima, quando seppi dal babbo che avrei avuto una sorellina, la presi piuttosto bene. Dal mio punto di vista, quella sorellina, in quanto più piccola di me, avrebbe dovuto farsi guidare, sottostare ai miei insegnamenti, giocare con me come e quando mi sarebbe garbato e via di seguito.
Non fu così.
La faccenda mi frustrò parecchio. Prima di tutto, all’età di tre, quattro anni, lei faceva ancora fatica a parlare.
Era scema?
“Come ti permetti di parlare così di tua sorella?”, mi aveva ripreso duramente il babbo. “Ogni bimbo inizia a parlare quando è venuto il momento”, disse.
“E Nunzio, allora?”, risposi. E Viola? E Rosaria? Hanno pure la stessa età di Celeste, ma parlano a mitraglia tutto il giorno e…”.
“Basta così!”, mi zittì mio padre. “Non dire mai più cose del genere o dovrai vedertela con me…!”
Anche in seguito, Celeste parlò poco. Sembrava quasi che parlare le costasse fatica. In particolare le garbava poco parlare con me. Era una finta tonta, altro che.
Abbandonai il sogno di avere la compagnia di una sorella docile e sottomessa e ritornai al mio mondo solitario con la sola consolazione della bambola Mimì.
Le compagne di scuola non venivano mai a casa nostra. Per una ragione che allora mi appariva misteriosa, le loro mamme le tenevano distanti da noi.
Una volta chiesi a Virginia, una ragazzina della mia classe, se veniva a fare merenda a casa mia. Avremmo fatto i compiti e poi avremmo giocato in giardino. Aurora ci avrebbe tagliato una fetta di torta. Lei era un asso nel preparare le torte.
Virginia ci pensò su parecchio, un po’ troppo per i miei gusti. Io ero tra le migliori della classe. In matematica poi non mi batteva nessuno. Lei invece era un’asina. E lo sapeva. Dunque, nel suo pensare e ripensare, doveva esserci un calcolo: se fosse venuta a casa mia non avrebbe più dovuto sudare sui compiti perché io l’avrei aiutata.
Invece, con mia grande sorpresa, disse:
“Io per me, ci verrei da te…sì, davvero che ci verrei!”.
Beh, allora dov’è il problema?, chiesi.
Lei fece un grosso sospiro:
“Mia mamma dice che la tua mamma è pazza. Lo sanno tutti che sta sempre chiusa in casa e che grida”.
Le mollai un pugno in faccia e corsi via.
Mentre fuggivo, sentivo i singhiozzi di Virginia, ma anche il mio volto era gonfio di pianto.

Sapevo bene che la mamma gridava. Quando le urla crescevano di tono Aurora saliva in camera sua e le dava una medicina. Così lei smetteva. Se accadeva che gridasse mentre ero in casa a fare i compiti scappavo in giardino, prendevo la bambola Mimì e la cullavo. In alcuni casi, quando non sopportavo più le sue grida, facevo urlare Mimì.
Mimì urlava e io la cullavo:
“Dormi dormi nella culla bella bimba della mamma. L’orco è chiuso nella stalla. Bella bimba della mammaaaa…”.

“Rita, soldatino mio, vieni a farti abbracciare…”.
Io non avevo accesso alla stanza della mamma senza la presenza degli adulti. Questi erano gli ordini del babbo. Ordini tassativi. Qualora mi avessero beccato mi avrebbero spedito in collegio: una prospettiva che mi terrorizzava.
Ma quando lui era in viaggio per lavoro o era in camera a fare il riposino pomeridiano e Celeste era affidata alle cure di Aurora, sgattaiolavo da lei, al piano alto della villa. Lo facevo passando da un balcone all’altro rischiando per giunta di rompermi l’osso del collo.
Se la finestra era chiusa bussavo e la mamma mi apriva.
Non avrei mai ammesso che non io ma Celeste era la figlia che le assomigliava. Celeste era identica alla mamma, da bambina. Per puro caso, una volta, avevo visto le sue fotografie di tanti anni prima. Il babbo però me le aveva strappate di mano. Non compresi il suo gesto così come non mi riuscì mai di capire perché della somiglianza tra lei e Celeste nessuno in casa ne parlasse.
La mamma si chiamava Elena.
Era così bella. Aveva un odore buono. Lo respiravo a sorsate, facevo riserva del suo profumo per i giorni nei quali avrei dovuto starle lontano.
La mamma, da ragazza, era stata una promettente soprano. Quando ero nata io, lei e il babbo avevano deciso di trasferirsi in campagna. Non aveva abbandonato il canto a causa mia bensì per via della malattia che la faceva gridare.
I muri della sua stanza erano tappezzati di fotografie di lei mentre cantava le opere. Io le ripassavo una ad una, ogni volta che salivo da lei. Ero incantata e le facevo un mucchio di domande:
Aveva conosciuto molti attori? Clarke Gable, ad esempio? Kirk Douglas? “No, loro no”, si schermiva, ridendo. Però aveva conosciuto altri personaggi celebri. Me li indicava nelle fotografie e mi raccontava della sua vita di allora. Le piaceva raccontare. I tratti del suo viso si distendevano. Le sedevo devotamente di fronte e contemplavo il suo bel volto chiaro.
Lei mi chiedeva della scuola e delle cose che facevo durante il giorno. Mi chiedeva soprattutto di Aurora.
Come si comportava?
“Insomma”, rispondevo, “fa delle buone torte”.
Mi chiedeva ancora, e questa domanda la faceva di frequente, se Aurora e il babbo si abbracciavano e facevano giochi insieme.
“Giochi?”, ero perplessa. I grandi di norma non giocavano.
“Si abbracciano come faccio ora io con te?”.
Io mi agitavo. Non capivo: non avevo in testa la casella giusta per soddisfare le sue richieste.
Lei mi accarezzò i capelli neri e lucenti. Poi disse:
“Non dispiacerti, Rita, soldatino mio”. Però d’ora in avanti prova a scoprire se il babbo e Aurora si abbracciano e si danno baci come io faccio con te e poi me lo vieni a riferire”.
Quando uscii dalla sua stanza sentii un formicolio doloroso ai palmi delle mani, quasi che avessi sfiorato un nido di vespe.

Dovevo spiare Aurora e il babbo. Fino ad allora me n’era importato assai di loro. Il babbo era il babbo, un’autorità cui ero sottoposta. Quanto ad Aurora, dal mio punto di vista lei non contava. Era solo una serva.
A quel tempo Aurora non doveva avere più di vent’anni. Io l’avevo classificata tra i grandi benché tra me e lei vi fossero non più di nove, dieci anni di differenza.
Ho chiara in mente la sua fisionomia: portava i capelli stretti in una coda di cavallo. I capelli erano lunghi e castani. D’estate li asciugava al sole in giardino, e intanto cantava. Cantare le piaceva.
Era pienotta, con seni piuttosto grossi. Questo lo rammento bene perché per curiosità a volte glieli toccavo. La prima volta che lo feci rise e mi disse che nel giro di qualche anno li avrei avuti anch’io.
“Grossi come i tuoi?”, risposi.
Lei si seccò parecchio della mia osservazione. Ne presi nota allo scopo di ripetere la frecciata casomai fosse capitata l’occasione.
Aurora non mi piaceva e neppure io piacevo a lei.
Il suo affetto era tutto per Celeste. Questo fatto mi lasciava indifferente: si tenesse pure Celeste, io avevo la mamma.
Quando mi sgridava, e succedeva spesso, la chiamavo serva per farla arrabbiare.
“Serva! Tu non mi puoi dare ordini, sei solo una serva!”, gridavo.
Lei diventava rossa fino alla radice dei capelli e tra le lacrime mi minacciava di raccontare al babbo quanto ero cattiva e pestifera.
“Te lo sogni, tu, un fidanzato!”, sbottava, “scimmia dispettosa che non sei altro!”.
“Cos’è un fidanzato?”.
E lei:
“Gesù, ma quanto sei tonta…”.
Non aveva torto, ero proprio tonta, quanto a faccende amorose. Non ne sapevo niente anche perché non avevo a chi chiedere.
Qualcuno che potesse aiutarmi c’era, ma l’idea non mi garbava affatto.
Luigino, il figlio del fattore, quello della rana morta, questo genere di cose le conosceva. Ne ero convinta perché alle volte, mentre gironzolavo nei luoghi più nascosti del giardino, lui appariva all’improvviso e mi chiedeva di fargli vedere le mutande.
Era una richiesta idiota, d’accordo, ma se volevo soddisfare le domande della mamma dovevo pur farlo parlare sulle cose che i grandi fanno tra loro.
Misi quanto prima in atto il mio piano: farmi sorprendere da lui per poi spingerlo a parlare.
Il caso volle che per un po’ Luigino non si facesse vedere. Era in gita con i boy scouts e non sarebbe tornato prima di due settimane.
Furono per me giornate di luna storta: non volevo tornare dalla mamma a mani vuote, che figura avrei fatto?
Rimaneva una sola soluzione: spiare Aurora e il babbo senza l’aiuto di nessuno. Qualora si fossero baciati, abbracciati o se lei gli avesse mostrato le mutande, sarebbe già stata una notizia sufficiente.
Noi bambini dovevamo andare a dormire alle nove di sera. Questa era la regola imposta dal babbo.
Non me ne lamentavo perché tra la scuola, i compiti, le corse in giardino, la cura di Mimì, alle nove di sera ciondolavo dal sonno.
Durante il giorno tenevo d’occhio il babbo e Aurora. Non accadeva nulla di quello che la mamma pretendeva: non si abbracciavano, non si baciavano. Aurora faceva i servizi di casa, preparava la cena e poi prendeva tra le braccia Celeste, la cullava e la portava nella sua stanza a dormire.
Verso le dieci di sera c’era già un grande silenzio.
E io, martoriandomi la faccia di pizzicotti, m’imposi di rimanere sveglia.
Andai in avanscoperta. Il ragionamento era il seguente: i grandi si nascondono quando fanno i loro giochi. Mi era capitato, questo sì, di assistere alle effusioni dei grandi nel senso di baci e abbracci. La signora Lina, per esempio, la nostra sarta, dava baci al babbo. Ma erano baci ridicoli, uno su una guancia, uno sull’altra: fzucc..fzucc... Il suono pressappoco era questo.
Anche a noi bambine la signora Lina dava baci, io però cercavo di sottrarmi. Non mi garbava di essere toccata da lei perché sapeva di muffa.
Aprii silenziosamente la porta della mia stanza. Avevo le pantofole, dunque non avrei fatto rumore. Mimì sonnecchiava nel mio letto. La sbirciai.
“Devi venire con me”, decisi.
Lei non pareva dell’idea.
“Invece tu vieni! Ho troppa fifa del buio”, dissi, afferrandola e stringendola al petto.
Le luci erano spente. Camminavo cercando di controllare la tremarella. Stavano dormendo tutti. In fondo al corridoio c’era la stanza di Celeste. Da lì veniva un chiarore , come di candela. Forse Aurora le lasciava accesa la lampadina sul comodino, per rassicurarla.
Sbirciai nella sua stanza: il letto era intatto. Dov’ era?
Aurora doveva averla presa con sé a dormire. Questa ragionevole possibilità venne subito smentita.
Celeste stava scendendo le scale che portavano ai piani alti della casa.
Mi scorse. Restammo una di fronte all’altra a scrutarci.
Sedette sui gradini, senza parlare. Aveva una camicia da notte lunga. I piedi nudi, le pantofole in mano per non far rumore.
Poiché non c’erano adulti intorno mi sentii autorizzata a trattarla come una sorella più grande tratta la piccola.
“Dove sei stata?”, le chiesi.
Lei disse semplicemente che era stata su.
“Su, dove?”.
“Meglio che non lo sai”.
“Non si dice meglio che non lo sai. Ad ogni modo lo voglio sapere”.
Lei fece spallucce: “ sono andata dalla mamma”.
Una punta feroce di gelosia mi trafisse il cuore.
“Da quando in qua hai il permesso di girare per casa di notte? Domani lo dico al babbo e vediamo se questa volta riuscirai a rincitrullirlo con le tue moine”.
Lei mi guardò distrattamente come se avesse cose più urgenti da fare che stare a sentire le mie lagne.
“Devi sapere che io vado tutte le notti dalla mamma”.
Rimasi di gesso: com’era possibile che mi fosse sfuggito un fatto eccezionale come questo? E com’era possibile che la mamma che mi chiamava il suo caro ometto, il suo soldatino di ferro, permettesse a quella smorfiosa di andare da lei ogni notte tenendomi all’oscuro di tutto?
“Non avrai la mamma”, le dissi. “Se solo provi ancora ad andare da lei di notte, io…io…!”.
“Tu, cosa?”, domandò lei, tranquilla.
Le mostrai il pugno: “la mamma appartiene a me, a me soltanto!”, dissi.
Tornò a guardarmi in un modo che non seppi decifrare, ma che m’inquietò.
“Quanto sei stupida!”, disse. Si sollevò dai gradini dove era seduta. Mi passò sotto il naso e si chiuse la porta della stanza alle spalle.

Contrariamente a quanto avevo minacciato di fare la notte prima davanti a Celeste non dissi nulla a mio padre. Certo non per generosità verso mia sorella: un’idea come questa non mi sfiorava neppure lontanamente. Volevo indagare per conto mio. Volevo un chiarimento con la mamma. Inutile dire che quella notte non presi sonno. Mi rigirai nel letto fino al mattino e mi alzai stanca e con gli occhi cerchiati. A colazione, mentre Aurora si dava da fare in cucina, incontrai lo sguardo di mia sorella. Aveva la solita faccia, Celeste- bocciol- di rosa. E profumava, per giunta.
Mi salutò nel suo modo distratto che riusciva a farmi imbufalire.
“Rita”, mi disse Aurora mentre portava in tavola il caffè e il latte,“Celeste mi ha detto che questa notte vi siete incontrate sulle scale, tu scendevi dal piano di sopra. Dov’ eri andata?”.
Fulminai mia sorella con lo sguardo.
“Ah, dunque sarei stata io quella che scendeva dal piano di sopra, questa notte?”, chiesi senza staccarle gli occhi di dosso.
“Non cominciare a protestare, Rita!”, riprese Aurora, “cosa ci facevi in giro di notte?”.
“Acchiappavo lucciole”, dissi.
“Rita”, sbottò Aurora, “sei la solita impertinente! Rispondi in modo garbato!”.
Avevo altro per la testa che mettermi a concionare con lei:
“Niente”, dissi, “non riuscivo a prender sonno così ho passeggiato un po’”.
“Non è permesso a voi bambine muovervi per casa di notte. Questi sono gli ordini del vostro papà, tienilo bene a mente”, fece lei.
“D’accordo”.

Luigino era tornato dalla gita con i boy scouts. Ne presi nota, poteva tornarmi comodo. L’idea di Celeste che tutte le notti andava dalla mamma mi dava il tormento. Non riuscivo a ragionare. Ad esempio, io provavo ad organizzare un pensiero, ma le parole pronunciate da Celeste quella notte s’infilavano di sguincio nella testa e il ragionamento, plaf! si squagliava. Parlare con Mimì non era una consolazione. Eppure, malgrado tutto, dovevo ragionare. Ero o non ero una mente matematica?
L’impulso sarebbe stato quello di salire dalla mamma, rovesciarle addosso la mia delusione e mollarla lì, a riflettere sul suo tradimento. Questa come prima cosa. La seconda, non meno importante, era quella di acchiappare Celeste per i capelli e sbatterla contro il muro, due, tre, quattro volte, fino a quando non avesse promesso di rinunciare all’idea di rubarmi la mamma, garantendomi una resa totale e definitiva.
E dopo?
Dopo, come minimo, si sarebbero aperte per me le porte del collegio. E ti saluto.
Il caso venne in mio aiuto. Nel nostro giardino c’era una piccola serra dove il babbo teneva le sue piante d’orchidea.
Mi trovavo a gironzolare lì intorno, insieme a Mimì, a caccia di Luigino, quando sentii la voce del babbo e quella del dottor Bacchi , il medico della mamma. Discutevano in modo piuttosto animato.
“Aldo”, stava dicendo il dottore – mio padre si chiamava Aldo-,“cerca di capire, non ci sono altre possibilità”.
E il babbo: “Mai, mi spiego? Mai farò rinchiudere mia moglie in un manicomio!”.
Drizzai le orecchie: parlavano della mamma…!
Camminai a gattoni fin sotto la feritoia che girava tutt’intorno alla serra. Dal punto dove loro stavano discutendo c’era una finestrella aperta. Se mi fossi sporta appena un po’, non m’avrebbero visto.
“Non si tratta di un manicomio, Aldo”, insisteva il dottor Bacchi, “ma di una casa di cura, dove potrà essere seguita da personale addestrato”.
Mio padre teneva in mano una delle sue preziose piante d’orchidea e parlava scuotendola forte:
“Non se ne parla neppure, Lorenzo, mi hai inteso?. “E per quanto mi riguarda la discussione finisce qui”.
Il dottore allargò le braccia: “E’ malata, Aldo, capisci?”, disse. “Schizofrenia paranoidea!”.
Cos’era la parola che Bacchi aveva detto? Non l’avevo mai sentita. La ripetei più volte per ficcarmela bene in testa per poi guardare nell’enciclopedia delle scienze. Lo sapevo fare.
Il babbo doveva conoscere quella malattia dal nome difficile perché non chiese spiegazioni.
“Elena non è mai stata pericolosa per le bambine”, disse. “Non torcerebbe loro un capello”.
“Con le bambine, ne convengo, non è accaduto ancora nulla, rispose Bacchi. “Ma Aurora, dove la metti? Sai bene che l’ultima volta che è salita a somministrarle un calmante Elena le ha graffiato la faccia e avrebbe potuto fare di peggio se la ragazza non fosse robusta e determinata!”.
Dunque era per questo che due settimane or sono Aurora girava per casa con la faccia piena di graffi. Si metteva impacchi sul viso e frignava.
Le domandai cosa le fosse accaduto. Disse che aveva litigato con il fidanzato. Una spiegazione della quale non compresi molto. Poiché però a me di Aurora non importava un fico, non approfondii la questione.
Ancora, molto alterata, sentii la voce di mio padre:
“Lo so, Cristo santo! Lo so cosa si è messa in testa, quella pazza!”.
“Cosa vuoi dire?”, fece il dottore
“Elena è convinta che io e Aurora vogliamo sposarci!”.
Come? Come? Vogliono sposarsi…
Lo stupore per la frase da lui appena pronunciata mi fece sporgere pericolosamente dalla finestrella. Se mi avessero scorta ero bella che fritta.
Il dottor Bacchi taceva. Si muoveva avanti e indietro, incespicando sui suoi stessi passi. Era un omone alto e forte ma in quel momento sembrava molle come un pupazzo fatto col pongo. In occasioni meno difficili mi sarei pure messa a ridere, da quanto era buffo.
Mentre il dottore camminava, mio padre massacrava la pianta d’orchidea, scuotendola a destra e a manca, come uno straccetto.
“Aldo”, disse Bacchi, fermandosi di botto davanti a lui, “stai parlando di una donna disturbata. Ma bada bene: i malati di mente sanno giocare d’astuzia. Elena può essere molto, molto pericolosa. Non scherzarci sopra”.
Mio padre era davvero troppo nervoso. Lui, sempre così calmo, mai una parola più del necessario, ora si mostrava pauroso davanti al dottor Bacchi.
“Non ci penso proprio a scherzare”, disse. Trascinava le parole come se fossero pesanti. “Eppure”, continuò, “qualcuno deve pur aver lavorato per mettermela contro. Non mi parla più, Lorenzo, – Bacchi si chiamava Lorenzo di nome - , “non mi guarda. Se salgo da lei si chiude in un mutismo carico di rancore…”.
“Che vuoi dire, Aldo?”, fece Bacchi. “Imputi a tua moglie cose che non dipendono da lei ma dal suo stato. Hai pure tu le manie di persecuzione?”.
“Può essere”, ammise il babbo, “tuttavia sono convinto che Elena ce l’abbia con me”. Sospirò. “Non si vive più in questo inferno…”.
Il dottore aveva finito di andare avanti e indietro. Era chino sulle piante d’orchidea allineate su un ripiano vicino al punto in cui si trovava mio padre.
Senza sollevare il volto disse:
“Aldo, parliamoci chiaro una volta per tutte: le voci corrono. Tutti in paese sono convinti che tra te e Aurora ci sia…”.
Non riuscì a finire la frase. La pianta d’orchidea che il babbo aveva in mano volò fuori dalla finestrella aperta. Meno male che ebbi la prontezza di schivarla prima che mi arrivasse dritta in faccia.
Dopo il lancio della piante vi fu un gran vociare tra il babbo e il dottor Bacchi.
“Come puoi dirmi questo, tu, il mio più caro amico! Anche tu, contro di me! Siete tutti contro di me! Fuori, va’ fuori da qui, e non tornare, sai! Non tornare più…!”, urlava mio padre.
“Con molto piacere!”, rispondeva Bacchi.
Io me la battei a gambe levate, dunque non posso dire quello che accadde in seguito.
Ricordo che mentre fuggivo fui fermata da Luigino: aveva sentito qualcosa anche lui? Mi convinsi che non era possibile. Non volevo che lo fosse.
Mi afferrò il braccio e mi disse: “figa”.
Chi era costei? Non ero nello spirito giusto per domandarglielo. Gli dissi soltanto: “ma va’ al diavolo, va’!”.

Sull’enciclopedia delle scienze trovai la parola schizofrenia. Copiai la spiegazione nel mio quaderno dei “pensieri grandi”. Avevo anche un quaderno per i pensieri “piccoli” dove mi divertivo pure a disegnare. I pensieri grandi riguardavano faccende serie. E questa era seria, altro che.
Schizofrenia: forma di psicosi tra le più frequenti, particolarmente grave, di cui non è ancora ben nota né la causa, né l’esatta delimitazione nosologica(?…) rispetto alle altre malattie mentali.
Schizofrenia paranoidea: tendenza alla frammentazione degli elementi costitutivi del pensiero e alla dissociazione tra le diverse funzioni psichiche.
Tra le più gravi la forma ebefrenia, caratterizzata da rapido deterioramento mentale, vacuità, abulia, stati confusionali. La forma paranoidea si manifeste con deliri spesso accompagnati da allucinazioni.
Non ci capii granché di quello che avevo scritto però ne avevo afferrato il senso. Quelle parole non mi spaventavano più di tanto. Di nuovo c’erano soltanto il nome e la descrizione della malattia. La cosa più importante per me era un’altra: la lontananza dalla mamma che mi faceva tanto soffrire.

Quella notte non portai con me la bambola Mimì. Dopotutto era solo una bambola.
Sbirciai nella stanza di Celeste. Non c’era né m’aspettavo che ci fosse.
Mi assicurai che il babbo non stesse ancora lavorando nel suo studio.
Salii le scale senza ricorrere al salto da un balcone all’altro. Ero convinta che la mamma avesse una chiave malgrado Aurora la chiudesse dentro per la notte. In caso contrario come avrebbe fatto a introdurre Celeste nella stanza?
E infatti la porta era accostata. All’interno c’era una luce tenue. La lampada sopra il comodino era schermata da uno scialle azzurro. Spinsi piano il battente.
Erano sedute sul letto. La mamma aveva il busto eretto e tra le sue gambe stava Celeste.
Mi accostai: Celeste era così immersa nel corpo della mamma che quasi scompariva in lei.
Avevo un groppo in gola che sapeva di amaro. Odiai la sorellina con tutte le mie forze. Se ne stava tra le braccia della mamma, a far le fusa, il dito in bocca, come i poppanti.
Sollevai lo sguardo sulla mamma. Aveva gli occhi grandi, allagati d’azzurro.
Guardai Celeste: li teneva fissi davanti a sé. Non dava segno di avermi scorto.
La mamma mi chiamò:
“Rita”, disse. Parlò senza muovere un muscolo, con una voce che sembrava venire più dalla pancia che dalla bocca.
“Avvicinati e parlami. So che hai molto da dire”.
M’imposi un tono di voce normale. Era un modo per difendermi. C’era ben poco di normale in quella stanza.
“Il dottor Bacchi dice che sei schizofrenidea”, dissi.
“Questo lo so, cara”, fece lei, “va’ avanti”.
Deglutii. Non mi decidevo a dire il resto. L’avrebbe presa malissimo.
“Allora, piccolina, ti ascolto, non devi avere paura a parlarmi”.
E io, tutto d’un fiato:
“Il babbo non vuole mandarti in manicomio ma io credo che invece lo farà perché vuole sposare Aurora e lei vuole lo stesso”.
Ecco, l’avevo detto. Ora m’aspettavo che venisse giù il tetto della stanza se non proprio tutto l’edificio.
Lei invece non reagì. Soltanto gli occhi erano divenuti, se possibile, più profondi. C’era come un ronzio dolce nella stanza. M’accorsi che proveniva da lei e da Celeste.
Io, il ronzio l’avevo nel cervello, ma non aveva niente di dolce quanto piuttosto di feroce. Lo sciame di vespe che avevo sentito pungermi i palmi dopo l’ultimo incontro con la mamma doveva essersi spostato nella testa.
Lei sollevò Celeste e la depose al suo fianco. Mia sorella rimase immobile dove era stata messa, tale e quale a un bambolotto.
La mamma mi prese in braccio senza mostrare alcuna fatica. La sua forza mi sorprese.
Mi accarezzò a lungo i capelli e il viso.
“Il mio soldatino”, disse , “la mia bambina coraggiosa”.
Posai la testa sul suo petto. Tremavo tutta, non riuscivo a fermarmi. Temevo che da un momento all’altro il groppo in gola si sarebbe sciolto, allagandomi la bocca del suo sapore amaro.
E avrei vomitato.
“Ascolta, Rita”, disse la mamma, “non devi essere gelosa di Celeste”.
“Lei viene da te la notte!”, esclamai, senza staccarmi dal suo petto, “e tu me lo hai sempre tenuto nascosto”.
“Rita, devo difenderla. E’ inerme, capisci? Tu, al contrario, non hai bisogno di me, tu sei forte”.
Scoppiai in un pianto convulso. Ero prossima al vomito e non volevo farlo sul suo petto.
Mi staccai da lei:
“Come puoi dire che non ho bisogno di te?”, urlai. “Io penso sempre a te! E tu preferisci lei. Fai come Aurora, come il babbo, come tutti…! Celeste di qua, Celeste di là…,e io? Io chi sono, nessuno?”.
Lei mi prese di nuovo fra le braccia. Sbirciai Celeste per vedere se, alle volte, avesse fatto una mossa. Macché.
Lei mi accarezzò, mi ninnò, mi baciò la fronte.
“Vedi, Rita”, riprese, “la mamma ti ama tanto, la mamma è orgogliosa di te”.
“M’importa assai che sei orgogliosa!”, sbottai, “voglio che mi vuoi bene quanto ne vuoi a lei”, dissi, indicando mia sorella. Ero di nuovo prossima al pianto.
Lei tacque poi disse:
“ Rita, ascolta bene quello che ti dico: io e Celeste siamo marce”.
Lo disse tranquilla, come se stesse parlando di niente.
Ci fu una pausa. Dovevo raccogliere i pensieri.
“Dove sei marcia, mamma?”, chiesi poi in un sussurro.
E lei, portandosi una mano alla testa:
“Qui”.
“Pure Celeste è marcia lì?”.
Lei assentì. Accarezzò Celeste.
“Non voglio che soffra come ho sofferto io”, disse.
Chinai la testa. Le vespe mi tormentavano.
“Io e lei dobbiamo andar via, Rita, prima che sia tardi!”
Tardi per cosa? Non ne capivo nulla. Con la mamma era tutto molto difficile.
Invece dissi:
“Portami con te! Sarò buona. Non tormenterò Celeste. Farò i servizi, tutto quello che vuoi, ma portami con te!”.
Lei mi guardò con una faccia troppo triste da sopportare.
“Non voglio”, disse. “E non posso. Tu sei il mio soldatino di ferro. Devi restare qui. E vigilare. La mamma ha fiducia in te, questo devi sapere”.
Si sciolse dal mio abbraccio.
“Vai, Rita”, disse ancora. E aggiunse:
“Guardati da Aurora”.

Quanto tempo avevo trascorso nel capanno? Non lo so dire. Mi stavo abituando all’oscurità di quel luogo, alla cosa che custodiva. A nove anni d’età questo è possibile. A trenta forse non più.
Curiosamente mi misi a ragionare. Non avevo più le vespe nella testa. Il pensiero filava via liscio. Correva dritto verso il suo centro: proteggere la mamma a tutti i costi.
Chiusi la cassapanca. Le cose dovevano restare come le avevo trovate. Uscii dal capanno accertandomi che non vi fosse nessuno in giro.
Mi rifugiai nella mia stanza. E attesi. I grandi avrebbero scoperto Celeste nel capanno. Era solo questione di tempo.
Volevo proseguire nel ragionamento invece m’addormentai. Ero così stanca. Mi svegliarono urla tremende che venivano dai piani alti della casa. Era la mamma. Non aveva mai urlato così forte. Guardai fuori dalla finestra, nel cortile. C’erano ambulanze e automobili della polizia. C’era un sacco di gente. E tutti facevano un gran baccano. Ma sopra quel baccano, alto, potente, risuonava l’urlo della mamma. Dopotutto era una grande cantante d’opera. La sua voce si levava impetuosa, tremenda, sopra il gracidare altrui.
Vidi il dottor Bacchi che parlava con un poliziotto. Dunque Bacchi non ci aveva abbandonato. Il babbo era accanto a lui, accasciato sulla sua spalla.
Non vidi Aurora. La cosa mi parve strana.
La mamma smise di gridare. Dovevano averla addormentata. Fu caricata sull’ambulanza. Poi il babbo, il dottor Bacchi e gli altri signori con la divisa, entrarono in casa. Fuori, in giardino, scese un silenzio carico d’oscurità.

Nella stanza del giudice Faravelli Michele, dove ero stata introdotta, c’erano altre persone: signore, perlopiù.
Mi fecero molte domande. Ma io sapevo giocare d’astuzia. Avevo il mio piano e l’avrei seguito fino in fondo.
“Dunque, Rita, fa’ attenzione”, diceva la signora che mi rammentava la nostra sarta: “hai visto Aurora, la vostra tata, entrare nel capanno?”.
“L’ho vista uscire, signora, non entrare! Uscire, ha capito? Quante volte mi tocca ripeterglielo? Sono stanca, voglio andare a casa”.
Intervenne il giudice Faravelli: “piccola,”, disse, “dopo ti faremo accompagnare a casa. C’è fuori il tuo papà che ti aspetta. Ma prima devi rispondere alle nostre domande. La tua sorellina è stata uccisa, comprendi?”.
“Questo lo so”, dissi, e presi a singhiozzare.
Le donne nella stanza del giudice mi avvicinarono per consolarmi. Mi scansai.
Dissi: “Non voglio che il babbo m’accompagni. Lui e Aurora volevano sposarsi. L’ho sentito dire dal babbo al dottor Bacchi quando mi ero nascosta per ascoltarli, dietro la finestrella aperta della serra”.
Ero determinata a punire il babbo. Dopotutto se lo meritava. Altro che, se lo meritava!
Il giudice mi incalzò: “Rita”, disse, “dopo che hai visto uscire Aurora dal capanno, tu cosa hai fatto? Sei entrata a tua volta?”.
“Ci sono i pipistrelli”, risposi, guardandolo negli occhi. “Ne ho paura”.
Dovetti andare ancora molte volte nella stanza del giudice Faravelli. Sopportai tutte le loro domande. Sempre le stesse. Non cambiai di una virgola le mie parole fino a quando, in qualche modo, si convinsero.
Seppi che Aurora si difese come una tigre. Fece un quadro piuttosto antipatico di me. Dopotutto, come darle torto. A suo parere ero una bambina bugiarda, cattiva, arrogante. La chiamavo serva. Disse che l’avevo sempre odiata perché, dal mio punto di vista, lei aveva preso il posto della mamma.
Chissà quante altre ne disse! Non me ne feci un cruccio, per quello che me ne importava!
Ad ogni modo ero sicura che non l’avrebbe sfangata. Era un’oca. Io, per lo meno ne ero convinta. E avevo ragione.
Il babbo pure andò dal giudice un sacco di volte. Bacchi l’accompagnava sempre. Non seppi mai cosa si dissero lui e il magistrato.
A casa aveva nei miei confronti un comportamento singolare: non mi parlava e neppure io parlavo a lui. Però capivo che mi rispettava. Aveva intuito la mia lotta per salvare la mamma.
Dopo il processo nel quale Aurora fu dichiarata colpevole della morte di Celeste, fui mandata in collegio.
Non avrei mai pensato che quella destinazione fosse per me un sollievo. Vi andai volentieri.
Il babbo veniva a trovarmi ogni settimana. Non gli parlavo. Gli chiedevo soltanto della mamma.
Lui diceva che era in una casa di cura, per riprendersi. Mi supplicava di credere che presto, appena possibile, sarebbe tornata a casa.
Fu la professoressa di matematica Altieri, molto simpatica, che mi stimava per i miei risultati scolastici, a darmi la buona notizia:
“La tua mamma è tornata a casa, Rita, è salva!”.
“Il babbo”, chiesi, “è accanto a lei?”.
La professoressa m’accarezzò il viso.
“Sono insieme, Rita, non temere. Credimi, si amano molto”. E poi, avvicinandomi affettuosamente a sé: “Lo devi perdonare Rita. Ha sofferto abbastanza, non credi?”.
Non risposi. Invece la presi per un braccio: “Mi dica di Aurora”.
Lei non sembrava dell’idea di parlarne.
“Lo voglio sapere”, insistei, “è sempre in carcere?”.
“Sta pagando, Rita”, rispose, “sta scontando la sua colpa”.


Il soggiorno dove avevo sostato per tutto quel tempo, immersa nei miei ricordi, era freddo. Avevo ancora addosso la vestaglia e nella tazza rimaneva un fondo di caffè. Lo bevvi. Era amaro.
Per tutta la vita, quella che avevo trascorso dopo i fatti che ho richiamato alla mente, mi sono imposta di non essere indulgente con me stessa. Avevo fatto condannare un’innocente, di conseguenza mi spettava di scontare quella colpa.
Scoprii, tanto per fare un esempio, che gli uomini non mi piacevano;al contrario mi garbavano le donne. Un certo tipo di donne che avevano i caratteri fisici della mamma, o meglio ancora, di Celeste.
Penso che quest’ inclinazione sia stata un modo per difendermi.
Questo amore per le donne, quel tipo di donne, soprattutto, è rimasto sempre un mio segreto.
Scosto la tenda per dare un’occhiata al cancello.
La carrozzina non c’è più.
Quanto tempo è trascorso?
Ad ogni modo mi devo preparare. La festa di noi pensionati non può attendere e io me la voglio godere.
Suona il citofono.
E adesso cosa c’è? Non aspetto nessuno, dunque decido d’ignorarlo.
Il citofono insiste.
“Pronto!”, dico.
Sento un rumore di contatti elettrici disturbati e i clacson della strada.
“Pronto!, e che diavolo!”.
Bussano alla porta.
“Facciamola finita”, penso. E apro.
La carrozzina blu è davanti alla soglia.
Una donna spinge il manubrio oltre la soglia e mi guarda. Ha una bambola in mano.
Me l’allunga. La prendo senza capire nulla di quanto sto facendo.
“E’ tua, Rita”, dice, “non la riconosci?. Ho pensato che l’avresti gradita”.
“Aurora”, dico in un sussurro.
“Mi fai entrare?”.
Le apro la porta e lei oltrepassa la soglia di casa con la carrozzina.
“Dunque è qui, che abiti?”, dice , guardandosi intorno.
Le avrei fatto vedere l’appartamento se la cosa l’avesse incuriosita ma non era venuta per un motivo tanto futile.
“Cosa ci fai qui, Aurora?”.
Lei molla in un angolo la carrozzina e si siede su una poltrona senza che io le abbia accordato il permesso.
Mi siedo di fronte a lei. Ho ancora in mano la bambola:
“Questa, puoi riprendertela”, dico, “non gioco con i pupazzi da un bel po’”.
Lei ride. Le mancano un paio di denti. E’ vestita di nero, roba da poco prezzo. I suoi bei capelli castani, ormai quasi del tutto bianchi, sono raccolti in una crocchia. E’ una vecchia.
“Ah, Rita”, dice, “non sei cambiata granché, sai? Hai sempre la solita faccia da sberle”.
Liscio la vestaglia sulle gambe. Aurora non ha intenzioni pacifiche, questo salta agli occhi. Non mi pare logico d’altronde che ne abbia.
“Come te la sei passata in galera, Aurora?”.
“Me la sono passata piuttosto bene, cara”.
“Non pensavo”, rispondo.
Una di noi due, è chiaro, dovrà uscire bella pesta da quel duello. Non ne faccio un dramma: nel mio intimo, nei miei sogni, nei miei incubi, avevo discusso molte volte con lei. E non ero mai riuscita ad assolvermi.
“S’imparano molte cose in carcere”, riprende Aurora. E poi:
“non hai qualcosa di forte da offrirmi?”.
“Whisky?”, domando. Prendo una mezza bottiglia di whisky e gliela porgo con un bicchiere.
“Tu non mi fai compagnia?”.
“Ho poco tempo”, rispondo, guardando l’orologio. “Vado a una festa e voglio ubriacarmi lì”.
“Non ti sei sposata, Rita?”.
“Sono fatti miei, se permetti”,dico.
E lei: “Avrei scommesso un braccio che saresti rimasta zitella”.
“Meglio per te, che te lo sei salvato”.
“Cosa?”.
“Il braccio, oca”.
Lei scola d’un fiato il bicchierino di whisky e se ne versa dell’altro.
“Oca”, ripete. Ci riflette sopra. Gira intorno alla parola.
“Anche per tuo padre ero un’oca. Un’oca grassa che gli faceva comodo quando aveva voglia di divertirsi, m’intendi?”.
“Intendo”, rispondo, “però, fammi la cortesia di spiegarti meglio”.
Non avevo mai sentito la versione di Aurora, circa la sua relazione con mio padre. M’incuriosiva che me ne parlasse.
“Aldo”, dice, “io e lui eravamo amanti”.
Mi sporgo verso la poltrona dove è seduta:
“E tu lo andavi a raccontare alla mamma, vero, Aurora? Glielo ripetevi giorno dopo giorno, tanto perché al tormento della sua malattia aggiungesse questa sofferenza”.
E lei: “Chi si prendeva cura di voi? Chi lavava, stirava, cucinava? Chi vi sopportava, se noi io?”.
“Sono tutte fatiche che si accollano le serve”, rispondo, “da che mondo è mondo”.
Lei ha un guizzo d’odio negli occhi ma si trattiene dal saltarmi addosso e riempirmi di pugni.
“Quello che al tempo non hai capito”, continuo, “è che non solo ai miei occhi, che in fin dei conti ero una bambina, ma a quelli di mio padre, tu eri nulla di più di una serva”.
Lei non si scompone. Ha la testa altrove:
“Mi aveva promesso che ci saremmo liberati di quella pazza di tua madre, questo mi aveva promesso!”.
“Mentiva”, la incalzo.
E lei:
“Eccome se mentiva! Era un bugiardo fatto e finito! E io ci sono cascata…!”
Si sporge verso di me. Il suo alito puzza di alcol:
“Mi diceva che ero bella, diceva di amarmi!Mi aveva regalato un anello…”.
“Aurora”, dico, e ho l’impressione di parlare con un’alunna un po’ tarda di comprendonio, “lo capivano anche i sassi che mio padre amava solo la mamma e che non ci sarebbe mai stata altra donna per lui!”.
“Infatti, l’infame così mi disse quando divenni più insistente. Disse che dovevo togliermi dalla testa ogni illusione, che mi avrebbe dato dei mezzi per i miei bisogni a patto che mi levassi dai piedi prima possibile!”.
Mi rassetto la vestaglia che si è aperta; non voglio far mostra delle mie intimità.
La guardo: malgrado le sofferenze che ha patito non riesco a provare compassione per lei.
“Gli avevo donato tutta me stessa… …”, dice lamentosa.
Inizio a stancarmi delle sue lagne. Ho bisogno d’aria. La sua presenza appesta la stanza. Voglio che se ne vada.
“Chiariscimi un punto, Aurora”, riprendo per abbreviare i tempi del nostro colloquio, “perché sei venuta qui, vuoi forse uccidermi?”
E lei, con una faccia sinceramente stupita: “Non ci penso nemmeno, Rita! Sono qui per raccontarti una storia, una storia poco simpatica che, mi auguro, ti farà molto soffrire”.
Non so cosa m’accadde in quell’istante. Il sospetto forse mi sfiorò per via dell’espressione malvagia sul suo volto. Un lampo m’attraversò il cervello. Scattai in piedi:
“Sei stata tu!”, esclamai, “tu, maledetta strega, tu hai ucciso Celeste!”.
L’avevo presa per i polsi e glieli torcevo.
“Mi fai male”, disse, provando a respingermi.
Non ci pensai proprio ad allentare la presa. Strinsi ancora più forte.
“E’ questa la storia che mi volevi raccontare, Aurora? Volevi che io sapessi che in tutto questo tempo ho provato una colpa tremenda nei tuoi confronti e che non ve n’era ragione!”.
“Pressappoco”, fa lei e ride.
“Ti stai divertendo?”, chiedo.
All’improvviso sono calma e fredda.
“Racconta”, dico.
“Dopo che tuo padre mi tolse ogni speranza di matrimonio decisi di vendicarmi. Quella stessa notte presi dalla collezione di coltelli che teneva chiusa in una vetrinetta un pugnale affilatissimo. Un pugnale indiano, diceva lui.
Quando salii da tua madre non sapevo che ci fosse Celeste. Amavo la piccola, non le avrei torto un capello. Ma la dama azzurra, come la chiamava tuo padre, doveva pagare. Volevo agire subito. Elena aveva capito troppe cose”.
Tacque e si mise a giocherellare con le forcine che aveva tra i capelli.
“Ci fu un corpo a corpo tra noi”, riprese. “Lei era molto più forte di quanto m’aspettassi. Il guaio fu Celeste. Si mise di mezzo, tra me e tua madre, non riuscivo a strappargliela da dosso. Elena urlava, anche lei cercava di scansare la bambina. Io la schiaffeggiavo con tutte le mie forze per tramortirla ma lei, niente, resisteva. Era dura a crepare, quella strega! Riuscì a strapparsi Celeste dal petto dove la piccola si era avvinghiata e a gettarla sul letto. M’avventai su di lei per colpirla. Feci cilecca perché rotolò di lato e il pugnale sprofondò nel materasso. Lo estrassi e volli colpire ancora ma in quell’istante Celeste si frappose. Fece scudo a tua madre col suo corpo. E io la colpii.
Non volevo farlo. Non avrei mai voluto che le cose andassero in quel modo.
Tua madre rimase lì, a guardare, impietrita. Diceva solo : “no, no, no, no, no, no, no…”.
Avrebbe preso ad urlare selvaggiamente. Dovetti schiaffeggiarla fino a quando svenne. Poi le somministrai una potente dose di sedativo. Con quella dose da cavallo avrebbe dormito per lo meno fino al pomeriggio del giorno dopo.
Avvolsi Celeste in uno scialle che tolsi da sopra l’abat-jour. La bambina era morta. Non potevo far nulla per lei. La deposi dentro il baule, nel capanno. Avrebbero incolpato tua madre. Dopotutto era pazza”.
Sospirò: “Ma non avevo fatto i conti con il soldatino di ferro”.

Si fa un grande silenzio. Poi lei dice:
“Da tempo volevo raccontarti questa storia, Rita. L’ho covata nel cuore, anno dopo anno”.
La osservo: Aurora che viene dal passato. Aurora che mi ha sempre camminato a fianco. Aurora che aveva spezzato la mia vita e che ora ora, dopo cinquantuno anni, mi consegna non la disperazione ma l’innocenza.
Sono libera.
Forse, perfino felice.
Per la prima volta intravedo questa possibilità.
Mi verso quello che rimane della mezza bottiglia di whisky.
“Bella storia”, dico, “e ora che me l’hai raccontata, vedi di levarti dai piedi”.
Lei si alza e barcolla verso l’uscita.
“Ti auguro tutto il male possibile”, mi dice mentre le apro l’uscio di casa.
Scrollo le spalle senza replicare.
“la carrozzina te la lascio”, aggiunge quando è già oltre la soglia, “così non penserai che la mia visita sia stata un sogno”.
Le lancio la bambola. “Questa non la voglio”, dico, “L’hai tenuta addosso tu. Ha un fetore di carogna”.

Mentre mi vesto per la festa dei pensionati mi viene in mente che la mamma mi aveva donato un paio d’orecchini a stella. Azzurri come i suoi occhi. Li avevo riposti in una scatola sopra l’armadio per non vederli più. Ora li posso indossare. A differenza di quelli a goccia, gli orecchini a stella non mi avrebbero dato un’aria cavallina. Alla festa avrei bevuto, riso, scherzato in questo mio primo giorno di quiete, il primo fuori dall’inferno.


Renata Adamo, febbraio 2008

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Valeva la pena arrivare alla fine di questo racconto. L'autrice è riuscita a spiazzarmi più di una volta, e ho molto apprezzato lo stile asciutto della narrazione.
Bello.

sabrina

Fiorenza ha detto...

Carissima Sabrina,
sì, il racconto piace molto anche a me. E' rigoroso, asciutto, lineare. E pur essendo capace di tenere col fiato sospeso fra un colpo di scena e l'altro, tuttavia ha una sua coerenza geometrica.

Di Renata Adamo mi piacciono molto anche le recensioni, che sono sempre profonde e originali. E, ti dirò, la vedrei molto bene a contribuire al vostro bel sito
http://declinatoalfemminile.menstyle.it/ . Perché non ci fate un pensierino? Io l'idea gliela butterò lì...

Un abbraccio
Fiorenza

Anna ha detto...

Sinceramente non riesco ad apprezzare. Non arrivo mai a leggere fino in fondo i racconti di questa autrice: li trovo stereotipati. Nel caso di questo racconto, l'ultima parte presenta gravi scorrettezze nell'uso dei verbi.