domenica 30 settembre 2007

Birmania. L'azione nonviolenta



"Non c'è una via per la pace. La pace è la via."


Thich Nhat Hanh


Questo silenzioso camminare per le strade, quieto, consapevole, ben conscio dei carri armati con i cannoni puntati, mi commuove fino al midollo.
Non c'è nulla di passivo in questa marcia. E' azione. Azione forte, intensa, determinata.
Eppure totalmente nonviolenta.
Propone, nel silenzio e nella pace, l'evidenza di ciò che è giusto e di ciò che non lo è.
Se la parola coraggio ha un senso, questo è ciò che le assomiglia di più.
Per sostenere l'azione nonviolenta dei monaci, delle monache e del popolo birmano:
http://www.amnesty.it/appelli/azioni_urgenti/Myanmar
http://www.avaaz.org/en/stand_with_burma/tf.php?cl_tf_sign=1

L'anoressia, l'amore e la parola

Barbara Gozzi ha proposto ieri, sul suo interessantissimo blog Progetto Butterfly, il tema dell’anoressia. Prendendo spunto dalla campagna “No Anorexia” lanciata sulla stampa nazionale da Oliviero Toscani, Barbara ci propone una serie di stralci sul tema raccolti navigando in rete. La pietra nello stagno, a dire il vero, Barbara l’aveva lanciata già qualche settimana fa, dal sito di Massimo Maugeri Letteratitudine, postando un estratto del suo racconto “Click jeans”, pubblicato da Concept Moda. Il racconto, che parla di anoressia, ha provocato un inatteso diluvio di commenti.
Che dire su questo tema, che non suoni come una paternale o un trattato psicanalitico. E’ così facile prendere la scorciatoia della retorica. O quella del tecnicismo.
Ho detto a Barbara che mi sarei presa la notte per meditarci sopra. In realtà mi sono presa anche tutto il giorno successivo. E adesso, eccomi qui a provarci.
Posso dire, credo, delle cose da donna. Perché l’anoressia è donna, su questo non ci piove. E’ qualcosa che qui, in questa nostra ricca opulenta civiltà occidentale, mediante il rifiuto di tutto questo cibo che non è mai stato così sovrabbondante come ora, segnala la presenza di una profonda distorsione. Un dolore di vivere totale, radicale, che questi corpi sospesi sul limine fra la vita e la morte urlano, con tutto il fiato che hanno in corpo. Un dolore che sta cucito dentro la stoffa di cui siamo fatti. Che sta dentro il latte che abbiamo bevuto fin da piccoli. Che sta dentro la nostra epistemologia, insomma. Dentro il modo con cui noi occidentali guardiamo il mondo.
Sono d’accordo con Oliviero Toscani. Non è il mondo della moda l’origine del problema. Sarebbe come dire che il raffreddore che uccide il malato di aids è la causa prima della sua morte. Non dobbiamo confondere il sintomo con la malattia.
E so, lo so con quel sapere non razionale che viene dalle budella, che non serve a nulla dire a un’anoressica “Mangia”. Oppure “Vergognati a non mangiare”. Perché, nonostante le apparenze facciano credere il contrario, non è per loro scelta che le anoressiche non mangiano. L’anoressia è un sintomo. La spia di segnalazione di un dolore, lacerante, profondo, così insopportabile da costringerle a un corpo a corpo quotidiano con la morte.
E allora, dove sta il nodo?
Il corpo è la pietra dello scandalo.
Nel pensiero dualistico occidentale, la carne viene connessa con la materia. E la materia è il male. E’ impura per definizione. E’ ciò che svia dallo spirito, ciò che sprofonda verso il basso, ciò che muore e si decompone.
E la donna è carne. Anzi. E’ La Carne. (Le pornostar sono carnose. Le ragazze calendario hanno grosse tette e culi burrosi.) O Il Sesso, che è la stessa cosa.
Per una donna ogni cosa collassa sul suo corpo. Non solo deve fare i conti con le proprie pulsioni e i propri desideri, ma anche con i desideri altrui. Con gli occhi altrui che cercano invadono frugano possiedono. Con mani invadenti e cazzi penetranti. E tutto, tutto finisce per ricadere sopra questo suo corpo, dentro questa sua amataodiata carne, da cui non sfugge. Se non cancellandola.
L’anoressia trova un modo eccellente per tenere fuori il mondo. Per espellere fuori dal corpo tutto quello scandalo. Tutta quella feroce bramosa insopportabile attenzione.
E questo è un primo motivo di fuga. Se la carne è la prigione in cui sono rinchiusa, allora ne toglierò il più possibile, mi libererò e diventerò spirito. E così sarò pura, pulita, libera da contaminazioni da parte di una realtà ambigua sporca e invadente che cerca un varco per penetrarmi dentro.
E poi c’è una grossa confusione postfemminista. Un sostanziale, sbalorditivo sbaglio di fondo. Noi donne abbiamo spesso dato per scontato che emanciparsi significasse essere come l’uomo. Per ritrovarci poi catturate negli stereotipi maschili, imprigionate dentro la velocità, la quantità, la fretta, la produttività.
E questo è un secondo motivo di fuga. Solo negando la mia femminilità, in realtà, posso vincere. La femminilità è una trappola, un laccio, un vincolo, un ostacolo. Un fardello, tutta quella carne pesante molle umida concreta. Tutto quel retaggio arcano e arcaico di fertilità e fecondità e sessualità oscura piena di recessi umidi. Tutto quel corpo che chiede insistentemente, scandalosamente di essere sottomesso. Sotto-messo. Riempito, posseduto. Qualcosa di cui mi devo sbarazzare, per essere pura, libera, leggera, svincolata, assoluta. Onnipotente.
E qui entra un terzo motivo di fuga. Questo mio corpo magro da impubere significa onnipotenza. Resto così, nel regno indeterminato dell’adolescenza. Non sono ancora qualcosa di preciso. Non mi sono individuata. Non sono “una donna”. E dunque posso essere tutto. Sono Proteo nella sua illimitatezza, pronta a cambiar forma appena qualcuno cerca di afferrarmi. Polivalente, piena di vie di fuga. Libera.
Infine spesso l’anoressica ha subito un cortocircuito sul piano delle regole. Qualcosa non ha funzionato nella trasmissione delle norme, che appaiono in qualche modo poco chiare, contraddittorie, inaffidabili. Piene di doppi vincoli, piene di non detto. C’è stata confusione su qual era il terreno di gioco di ciascuno. In qualche modo, lei è stata invasa. Lei come individuo non è stata rispettata. I suoi confini sono stati forzati, o mai nettamente individuati.
E dunque ora lei deve stabilire regole chiare.
E questo è un quarto motivo di fuga. Devo definire i miei contorni. Tracciare il limite invalicabile oltre il quale gli altri non possono passare. Sono ferrea, nella mia disciplina. Perché è questione di vita o di morte. E’ questione di sapere chi sono. Chi cerca di invadermi resterà fuori da questo muro che ho eretto, e che ho seminato di cocci di bottiglia.
Ecco perché un tempo l’anoressia veniva ritenuta un male incurabile. In realtà l’anoressica non accetta, da nessuno, il travalicamento del muro. E’ questione di salvezza per lei. Di vita o di morte. Di chi lei è. Se si lascia penetrare dal terapeuta, chiunque poi la potrà di nuovo violare. Una volta che il muro è crollato, il mondo la sommergerà di nuovo come un’alluvione incontenibile.
E allora? Che fare con questa folla sempre più numerosa di ragazze che un bel giorno della loro vita decidono che vivranno senza mangiare, e in questo modo attuano l’insurrezione più radicale che possa essere concepita contro le leggi dell’esistenza, contro i cardini stessi dello stare al mondo?
Forse vedere che l’anoressia non è altro che una malattia d’amore. Malattia di amore negato, di terrore di perdere l’amore altrui. Si soffre di meno quando il dolore lo si crea con le proprie mani, anziché quando si permette agli altri di procurarcelo. In fondo è qui la chiave di tutto. Escludere il mondo per eliminare il rischio di soffrire. Il terrore di non meritare amore.
La cura, in ogni caso, è l’aiuto a levare la maschera. A distogliere gli occhi dal sintomo, che urla in modo silenzioso e afasico attraverso quelle ossa che forano la pelle cercando di calamitare tutta l’attenzione, per concentrarsi invece su ciò che davvero sta cercando di parlare e non può. Perché l’anoressia, come un tempo l’isteria, non si fida della parola. L’isteria urlava al mondo l’indicibilità del reale. L’orrore di ciò che è e non può esser detto.
L’anoressia propone l’evidenza del dolore dentro la carne. Spostando sul piano del corpo quel che non può essere detto con le parole.
Ridare parole al dolore. Nominare. Riconoscere.
E abbracciare.
Con tutto l’amore del mondo.
Amiche mie. Amiche mie che ancora non vi vedete. Così ricche. Così travagliate. Così belle. Così sofferenti. Così deboli. Così forti.
Così generose, così piene di tutto quello che è. Amore. Bellezza. Intelligenza. Piccolezza. Fragilità. Accoglienza.
Così sontuose. Così carnose fonde vive nere luminose.
Carne, carne vita sangue sparse generosamente per la strada. E ho detto sparse perché tutto questo è femmina.
Femmina. Femmina. Femmina.
Amatevi, vi prego.
Che tutta questa vostra bellezza non vada dispersa dentro il vento senza portare frutto.

venerdì 28 settembre 2007

Ciao, Francis. Intervista immaginaria a Francis Bacon





Ciao Francis. Devo chiamarti Maestro?

Vaffanculo. Non sfottere.

No. Davvero. Non è per sfottere. La gente usa chiamare Maestro quelli come te. E’ un riconoscimento alla bravura. Al genio. All’eccellenza.

Quale bravura. Quale genio. Vaffanculo.

O.K. Va bene. Ricominciamo da capo. Ciao Francis. Come va adesso che ti sei liberato del corpo? Ti senti sollevato, tu che del corpo avevi fatto un’ossessione?

Un’ossessione? Che cosa vuol dire? Non c’è nient’altro al di fuori del corpo. Io ho solo cercato di essere sincero. Ho cercato di restituire onestamente la verità. La carne il flusso del sangue il contrarsi delle budella le vene il cavo dei denti il rosso carminio delle gengive. La verità. Tutto qui.

La verità. Ma che cos’è la verità? Se dici così, sembra che ce ne sia una sola. Vuoi dire che la sola verità possibile sta in quei corpi contorti che esplodono e si rivoltano fuori di se stessi in una fuga a precipizio fuori da ogni orifizio?

Io non sto dicendo niente. Sei tu che dici. Sei tu che giochi con le parole e te le lasci sbrodolare giù per il mento come la pappa di un neonato. Hai bisogno di un bavaglino, per caso?

Ma se queste non sono le parole giuste, allora io non so come parlare di tutto… tutto questo. Come si fa a parlarne? Quali sono le parole giuste?

Di queste cose non si può parlare. Ogni tentativo di parlarne smuove solo aria viziata. Queste cose si fanno.

Queste cose si fanno. O.K. Allora diciamo che questo va bene per te, che queste “cose” sei in grado di farle. Ma quello che sta dall’altra parte? Il tizio che sta lì e guarda quello che tu hai fatto? Che margine di azione gli resta?

Ah, affari suoi. La cosa non mi riguarda. Io quel che dovevo fare l’ho fatto. Quel che fa questo “tizio”, come lo chiami tu, non mi riguarda minimamente.

Vuoi dire che non hai in mente nessun pubblico quando dipingi?

Io ho in mente solo la verità. Come rendere più vero quello che sento. Tutto qui. Se poi tu hai voglia di appenderci un’etichetta, a quello che io ho fatto, sono affari tuoi. L’etichetta è tua, non mia.

Allora parliamo di verità, visto che l’hai nominata diverse volte. Quanta verità c’è in un’immagine giornalistica? Il fatto che l’immagine sia stata scattata proprio là dove i fatti avvengono, senza mediazioni, la rende più vera?

Oh, questa è una buona domanda. Finalmente. Qualcosa che non cerca di appiccicarmi addosso una qualche definizione. Be’, guarda. Io credo di no. Credo che non necessariamente un’immagine sia più vera perché è scattata in presa diretta proprio dove avviene il fatto. Credo che il solo fatto di fermare il divenire degli eventi, di farne qualcosa di ripetibile, analizzabile, e poi un’icona, se necessario, trasforma il fatto in quello che non è. Anzi, spesso proprio l’apparenza di verità che hanno queste immagini nasconde irrimediabilmente la verità. Pensa a quel filmato… quello del ragazzo israeliano picchiato e tirato giù da un’automobile, sai, quel ragazzo che non ha reagito anche se aveva il fucile e poteva far fuori tutti i suoi assalitori. Be’, quel pezzetto di vita di un individuo qualsiasi in mezzo a altri sei miliardi è stato visto e rivisto, passato al telegiornale decine di volte, ogni gesto del ragazzo analizzato e giudicato, condannato senza appello da alcuni perché non aveva reagito come avrebbe dovuto, esaltato da altri per lo stesso motivo. E intanto, analizza e analizza, che fine ha fatto la verità in questo caso?

Mah… Non saprei. Che fine ha fatto?

La verità stava dentro il flusso di sangue frenetico che schizzava per le vene di quell’individuo. Dentro gli schizzi di adrenalina che gli drogavano il sangue. Dentro la pompa del cuore che si contraeva disperatamente. Dentro la sua carne mortale che piangeva la propria morte. Proprio lì dentro. Che cosa è rimasto di tutto questo dentro quel filmato? Poco. Probabilmente niente. C’è solo quel tanto che basta per concedere a chi guarda seduto in poltrona di giudicare. Troppo poco.

Ma allora, come si fa a restituire la verità?

Bisogna andare oltre la pelle. Essere sinceri fino alle ossa, fino alle budella. Lacerare veli. Essere fedeli alla carne.

Fedeli alla carne?

Sì. La carne mi ha sempre ossessionato. Quel colore sontuoso rosso sangue. Quelle screziature di giallo, le pieghe setose delle mucose. Il bianco dei denti. E’ disperatamente bello e caro.

E’ per questo che dipingi? Per dare corpo a questa ossessione?

Guarda, io non credo di essere un pittore. Probabilmente se avessi avuto orecchio avrei scritto musica. Ma io non sono uno musicale. Oppure magari avrei scritto poesie, se avessi avuto familiarità con la metrica, che ne so. E’ solo che sono disperatamente ricettivo. E dipingere, a un certo punto, è diventato il mio modo per restituire quello che ricevevo.

Non è un eccesso di modestia questo?

Non dire cazzate. E’ semplicemente sincerità. Io cerco sempre di essere sincero, il più sincero possibile. Ovviamente non sempre ci riesco. Però diciamo che ci provo.

E’ per questo che le tue opere sono così… disturbanti. Perché sono spaventosamente sincere. E’ come se tu cercassi in ogni modo… come posso dire. Di evitare il fascino, ecco.

E’ così. Il fascino è un velo che nasconde la brutalità del fatto. Io non voglio alleggerire, o abbellire. Io voglio solo dire le cose così come stanno. Nel modo più sincero e fedele possibile. Ovviamente in pittura questo significa essere fedeli alla carne più che alla pelle. Non mostrare ciò che appare, ma ciò che è. Anche a costo di una distorsione radicale dell’immagine. Ma deve trattarsi di una distorsione fedele. Più fedele di una copia fedele.

E’ per questo che ti sei arrabbiato quando ti ho chiamato Maestro? Per via di questa storia del fascino, voglio dire?

E’ per questo. Essere ricchi è comodo, per certi versi. Uno si può permettere delle cose piacevoli senza pensarci su troppo. Però essere famosi è una trappola. Si deve passare il proprio tempo a distruggere i veli che gli altri cercano di buttarti addosso. E’ faticoso.

Una volta ti sei definito intellettualmente pessimista, ma ottimista nel sistema nervoso. Che cosa volevi dire esattamente?

Niente. Solo quello che ho detto. Che le mie mani, il pennello, i colori sulla tela sono collegati con la mia parte ottimista, perché io cerco di dipingere direttamente con il sistema nervoso.

Vuoi dire che definiresti la tua pittura… una pittura ottimista?

Certamente.

Ma c’è chi la definisce… atroce.

Be’, sì. Può darsi. Ma si tratta comunque di un’atroce gioia. O forse, meglio, un’atroce gioiosa pietà.

C’è qualcosa in particolare che vuoi dire, per concludere questa intervista?

No. Mi hai già fatto parlare anche troppo. Pensavo che da queste parti non ci fossero pennivendoli parolai in circolazione. Ma vedo che d’ora in poi dovrò stare più attento a dare confidenza a chi incontro.

Ciao, Francis. Grazie, e buona fortuna.


Bibliografia su Francis Bacon

"Interviste a Francis Bacon", David Sylvester, ed. Skira
"Francis Bacon. La logica della sensazione", Gilles Deleuze, ed. Quodlibet
"Figurabile. Francis Bacon", a cura di Achille Bonito Oliva, ed. Electa

Francis Bacon sul web

http://it.wikipedia.org/wiki/Francis_Bacon_(pittore)
http://www.engramma.it/engramma_v4/rivista/galleria/38/galleria_bacon.htm
http://www.francis-bacon.com/
http://www.artsversus.com/francisbacon/


mercoledì 26 settembre 2007

Declinato al femminile su Delirio.net: interviste a Francesca Mazzucato, Maria Giovanna Luini e Fiorenza Aste

Il portale Delirio.net ha pubblicato un lunghissimo post dedicato alla collana delle Edizioni Creativa “Declinato al femminile”. La rassegna, curata da Eliselle, contiene tre interviste: a Francesca Mazzucato, curatrice della collana e autrice di “Magnificat marsigliese”, a Maria Giovanna Luini, autrice di “Una storia ai delfini”, e a me.
Ringrazio tanto Eliselle, e sono davvero felice di trovarmi nella stessa intervista con Francesca e con Maria Giovanna Luini!

martedì 25 settembre 2007

Recensione di Barbara Gozzi su Lankelot


La narratrice Barbara Gozzi scrive di “Cocci di bottiglia” su Lankelot. E lo fa in un modo dolce e appassionato, profondo e commosso. E per me estremamente commovente.
Sono nuova alla sensazione di esser letta. E’ una cosa che mi frastorna un po’. Ho già parlato, nel post che ho dedicato alla recensione di Gianfranco Franchi, della sensazione di timidezza e responsabilità che questo mi genera dentro. Vorrei, al più presto, approfondire con voi le origini e i perché di questa sensazione.
Ma per ora desidero raccontarvi qualcosa che mi ha colpita profondamente. Dice Barbara Gozzi nella sua recensione: “C’è questo frammento, fermo immagine, che mi ha avvicinata a "Cocci di bottiglia" prima ancora di sapere cos’era, prima ancora di decidere. Lo recupero ora che mi è tutto più chiaro, ora che so. Sabato pomeriggio a Bologna. Uno dei pochi reading a cui posso partecipare senza fare i salti mortali per lasciare il mio piccolo angelo a giocare (perchè per ora le letture ancora non lo interessano!), senza dovermi scervellare per far coincidere impegni e scadenze. Un sabato pomeriggio, dicevo, di inzio settembre. E una lettura potente, appassionante, devastante. Poi, nella semioscurità, in mezzo al brusio generale e alle opere d’arte appese un abbraccio. Una piccola magia tra due donne. E io lì per caso, sto per uscire alla ricerca della calma necessaria per assorbire l’urto. Un abbraccio che è l’essenza di questo romanzo. Due donne. Una era Francesca Mazzucato. L’altra Fiorenza Aste.”
Ecco. E’ la descrizione del primo incontro fra me e Francesca. Fatta da una persona a me allora sconosciuta, che ha assistito all’evento.
L’evento.
Io e Francesca ci siamo conosciute otto anni fa, per telefono. Dovevo intervistarla per la rivista “Storie”, per cui allora lavoravo.
Da lì, da quella lunga telefonata, è nata una delle amicizie più profonde e importanti della mia vita.
Ma io e Francesca non ci siamo mai viste.
Mai per otto lunghi anni.
Fino a quel sabato pomeriggio a Bologna.
Il primo abbraccio, commovente fino alle lacrime, fra due persone che hanno condiviso le profondità di se stesse. Che si sono viste fino agli abissi.
Ma non con gli occhi di carne.
Ecco. E Barbara era lì. Con noi.
Destino.
Grazie Barbara. Un caldo abbraccio.
E grazie per le tue calde sensibili parole.

Il bel blog di Barbara Gozzi, Progetto Butterfly, dove, fra i racconti della scrittrice e interessanti annotazioni personali sulle sue letture, trovate una generosa presentazione della collana “Declinato al femminile”, diretta da Francesca Mazzucato.

sabato 22 settembre 2007

Recensione di Gianfranco Franchi su Lankelot


Gianfranco Franchi, creatore e responsabile di Lankelot, bellissimo versatile blog che si occupa di arti e scienze, ha dedicato una intensa, penetrante recensione a "Cocci di bottiglia". Gli sono profondamente grata. La cura, la passione, l'intelligenza e la vastissima cultura che ha offerto al mio piccolo testo mi intimidiscono. Mi danno una sensazione di enorme responsabilità.
Franchi ha da poco pubblicato Pagano per le edizioni Il Foglio Letterario. Lo sto aspettando. E nell'attesa ho letto l'"Ombra della fontana", densa silloge poetica pubblicata sotto forma di e-book da Kult Virtualpress. Mi propongo di ritornarci sopra con tutta la calma e la concentrazione che questa raccolta merita. Intanto, un assaggio:

LA FORMA.

Malmesso inconcludente
manipolato spirito del niente:
la forma è corteccia,
decoro naturale.
Opera è metamorfosi;
leggenda contaminata,
sperimentazione impressa-
accudite parole, promesse.
Un ombrello di fiamme avanza
impietoso, e risoluto: riflessivo.
Sandali dialogano irrequieti,
atterriti e fragili osservano;
(seduti, in attesa)

il fuoco risparmia la terra,
difende la vita dal cielo.



LA MADRE DI MIA MADRE (il mio filo).

La madre di mia madre apparve
sedendo come Pizia nel salotto
le mani fasciate vaticinava

la morte
descrivere l'Inferno…
nascondeva liriche

nella scarsella della vestaglia,
terzine
del mio tempo e degli amori;

perso il respiro sfogliai
le sanguinose carte
i miei passi e i miei atti

addomesticati
mi parve tremassero
i suoi occhi vitrei.

mercoledì 19 settembre 2007

Cercando la chiave

Lavoro con lui quest’anno.
Sarà il mio compito. Il fuoco delle mie giornate.
Si chiama Riccardo. E’ piccolo, biondo e riccio. Piccolo davvero. Sette anni.
Sarà il mio allenatore, lui, quest’anno. Il mio maestro.
L’ho capito il primo giorno che ci siamo conosciuti. Io che vengo da anni di insegnamento, e che penso di avere dell’esperienza.
E lui, che mi sta di fronte e è. E’ al suo modo unico e senza possibilità di previsione. E’ in quel suo modo strano e sorprendentemente limpido e senza etichette da poterci appendere. E’, ogni giorno, sconcertante. E se provi un giorno a dare per scontate le cose che il giorno prima sembravano ovvie, lui ti insegna che non c’è niente di scontato.
Con gli anni ti fai l’esperienza. Conosci trucchi, e sai che funzionano. Sai che ci sono dei passaggi che puoi permetterti di saltare. I bambini ci arrivano. Tu sai come prenderli, e loro si lasciano prendere.
Non c’è scorciatoia con Riccardo. Niente trucchi. Niente cliché. Lui ti mette spalle al muro. E se vuoi trovare la chiave per aprire quel suo scrigno chiuso, ti devi mettere in cerca di nuovo ogni mattina.
Capita, a volte, che ti lasci a bocca aperta.
Un giorno ha detto grazie.
Così. Senza preavviso.
Un mutismo bianco come il latte, silenzioso e originario come quello di uno scoiattolo. E poi, così, fuori da quei denti e quelle labbra, questa cosa sorprendente. Questo fiore speziato, questa orchidea, questo agglomerato di fonemi complessi, irti e screziati, questo disorientante sconvolgente messaggio. Io ci sono qui dentro. Eccomi qui. Grazie.
Lui c’è lì dentro. Lo so. L’ho visto. Chiuso nel suo scrigno muto lui ti vede e ti capisce.
E io, adesso, ho la responsabilità di cercare la chiave.
Lui mi insegna a non usare scorciatoie.
E io cercherò di non usare trucchi.
Sarò onesta e lineare.
Lui questo vuole.
Ti chiama. Ogni tanto lo scopri con gli occhi che ti guardano fisso. Per un attimo. Pochi momenti. Poi di nuovo scappano, perché per un autistico il contatto degli occhi è troppo. Troppa vicinanza, troppa invasione.
E poi viene, ti si appoggia addosso di schiena, e si strofina tutto, come un orsetto.
Ti chiama.
Trovare, ogni giorno, il modo vero di rispondere.
Questo sono qui a imparare quest’anno.
Riccardo sarà il mio maestro.

giovedì 13 settembre 2007

Apologia della lentezza

Un altro blog nel mare immenso della rete.
Che differenza può fare, mi domandavo ieri, dentro quest’oceano di parole agglutinate, dense come gelatina, che ti avviluppano da ogni parte ogni volta che scivoli in rete.
Tante parole. Troppe, forse.
Un brusio globale che circonda la terra come una bolla.
E allora? Che ci fa qui un altro blog?
Non so.
Ieri volevo che questo fosse il blog del silenzio più che il blog delle parole. Un blog che risparmia e parla solo quando sente che è buono farlo. Solo quando le parole sembrano davvero necessarie.
Non so se sarò capace di rimanere qui, dentro questa decisione. Forse quando uno è in rete, in qualche modo si sente spinto a far vedere che non è morto. A dare, ogni giorno, segnali di vita.
L’ho sentita, questa febbre, mentre preparavo il blog. Questa spinta, dai, dai, di cosa possiamo riempirlo adesso. Ti guardano, ti leggono, fa’ vedere cosa sai fare.
Ecco, davvero, vorrei che non fosse questo.
Vorrei che questo spazio fosse vuoto più che pieno.
Silenzio più che rumore.
Lentezza più che fretta.
Un blog lento.
Che cammini piano piano, e si lasci sorpassare in grande tranquillità.
Senza inquietarsi.
Senza confondersi.
Un blog dove concedere tempo, spazio, e silenzio, all’armonioso giustapporsi del tutto. Dove lasciar fluttuare lento quello che esiste, finché non si sistema in modo tale che tutto si veda bene.
Tutto qui.
Vedremo.
Facile parlare. Ora mi aspetto alla prova dei fatti.

domenica 9 settembre 2007

Vieni via di qui

Improvvisamente si ricorda che ha ballato.
Sente un'ondata di caldo sulla faccia. Apre gli occhi.
Ha ballato troppo.
Sa che ha ballato troppo. Sa che era come essere tutta nuda, e che tutti la potevano ben vedere.
Si alza a sedere sul letto.
C'è questo mal di testa. Non è forte. E' come se la testa fosse imbottita di qualcosa. Una testa di piombo.
Si guarda intorno.
Stanza sconosciuta.
Intonaco bianco. Mobili vecchi di legno scuro.
Non riesce a capire dov'è.
E' giorno. C'è luce che entra.
C'è il ragazzo sdraiato vicino a lei.
E' quello di ieri sera.
Se lo ricorda, ieri sera. Che le parla da vicino. Si ricorda il luccicare dei suoi denti.
Il suo odore di sapone. Un buon odore. Amaro. L'odore di un bambino lavato dalla mamma e di dopobarba da uomo.
Si ricorda anche l'odore di fumo del bar. Le luci gialle. Le travi di legno del soffitto.
La musica. Troppo forte. Faceva tonfi nello stomaco. E lei ballava, ballava. Ha ballato in quel modo esagerato che ti fa guardare da tutti.
Il ragazzo.
Questo ragazzo. La voleva molto, ieri sera. Ah, sì, come la voleva. Le parlava da vicino, e allungava la mano per toccarla. Le sistemava i capelli e le toccava le spalle.
Era una bella cosa. Le piaceva sentire che lui la voleva così tanto. Le dava una specie di formicolio nella pancia.
Dorme a pancia sotto. E' nudo.
E' stupido, ma non si ricorda se hanno fatto l'amore. Non si ricorda proprio niente.
Adesso le dispiace avere ballato troppo. Sente che era tutta esposta.
E' per quello che il ragazzo la voleva così tanto. Lei era lì davanti agli occhi di tutti.
Non ballava per lui però.
Lo faceva per quell'altro che parlava con qualcuno, lontano, in qualche angolo. In qualche angolo affollato pieno di fumo.
Sempre da lontano, sempre da un posto riparato.
Ogni cosa fatta solo con gli occhi.
Adesso le mancano le mani.
Le mani grandi. Le nocche grosse la pelle in montagne corrugate sopra i nodi. Le vene col sangue scuro denso sotto la pelle.
Assenza delle mani.
Deve averla vista ballare.
Da lontano.
E poi deve averla vista andare via con questo ragazzo. Per forza.
Lo guarda.
Il lenzuolo gli copre una gamba e un braccio. L'altra gamba è scoperta. Distesa. Ha la pelle chiara coperta di peli fitti biondissimi.
Le viene voglia di lisciarli con la mano.
Adesso le dispiace di non ricordarsi niente.
Forse non hanno fatto proprio niente. Solo dormito dentro quelle lenzuola che sanno di detersivo straniero.
Gli guarda la bocca aperta. Le labbra molto rosse. Si vede la punta della lingua in mezzo ai denti bianchi. E' rosa scuro, con le papille in rilievo. Sembra un piccolo frutto. Un lampone, una fragola.
Tutta quella pelle liscia. Intera.
Ah, è bello. E' molto bello.
Rabbrividisce scuotendo tutto il corpo....

Cocci di bottiglia, Fiorenza Aste, ed. Creativa