Barbara Gozzi ha proposto ieri, sul suo interessantissimo blog
Progetto Butterfly, il tema dell’anoressia. Prendendo spunto dalla campagna “No Anorexia” lanciata sulla stampa nazionale da Oliviero Toscani, Barbara ci propone una serie di stralci sul tema raccolti navigando in rete. La pietra nello stagno, a dire il vero, Barbara l’aveva lanciata già qualche settimana fa, dal sito di Massimo Maugeri Letteratitudine, postando un estratto del suo racconto
“Click jeans”, pubblicato da Concept Moda. Il racconto, che parla di anoressia, ha provocato un inatteso diluvio di commenti.
Che dire su questo tema, che non suoni come una paternale o un trattato psicanalitico. E’ così facile prendere la scorciatoia della retorica. O quella del tecnicismo.
Ho detto a Barbara che mi sarei presa la notte per meditarci sopra. In realtà mi sono presa anche tutto il giorno successivo. E adesso, eccomi qui a provarci.
Posso dire, credo, delle cose da donna. Perché l’anoressia è donna, su questo non ci piove. E’ qualcosa che qui, in questa nostra ricca opulenta civiltà occidentale, mediante il rifiuto di tutto questo cibo che non è mai stato così sovrabbondante come ora, segnala la presenza di una profonda distorsione. Un dolore di vivere totale, radicale, che questi corpi sospesi sul limine fra la vita e la morte urlano, con tutto il fiato che hanno in corpo. Un dolore che sta cucito dentro la stoffa di cui siamo fatti. Che sta dentro il latte che abbiamo bevuto fin da piccoli. Che sta dentro la nostra epistemologia, insomma. Dentro il modo con cui noi occidentali guardiamo il mondo.
Sono d’accordo con Oliviero Toscani. Non è il mondo della moda l’origine del problema. Sarebbe come dire che il raffreddore che uccide il malato di aids è la causa prima della sua morte. Non dobbiamo confondere il sintomo con la malattia.
E so, lo so con quel sapere non razionale che viene dalle budella, che non serve a nulla dire a un’anoressica “Mangia”. Oppure “Vergognati a non mangiare”. Perché, nonostante le apparenze facciano credere il contrario, non è per loro scelta che le anoressiche non mangiano. L’anoressia è un sintomo. La spia di segnalazione di un dolore, lacerante, profondo, così insopportabile da costringerle a un corpo a corpo quotidiano con la morte.
E allora, dove sta il nodo?
Il corpo è la pietra dello scandalo.
Nel pensiero dualistico occidentale, la carne viene connessa con la materia. E la materia è il male. E’ impura per definizione. E’ ciò che svia dallo spirito, ciò che sprofonda verso il basso, ciò che muore e si decompone.
E la donna è carne. Anzi. E’ La Carne. (Le pornostar sono carnose. Le ragazze calendario hanno grosse tette e culi burrosi.) O Il Sesso, che è la stessa cosa.
Per una donna ogni cosa collassa sul suo corpo. Non solo deve fare i conti con le proprie pulsioni e i propri desideri, ma anche con i desideri altrui. Con gli occhi altrui che cercano invadono frugano possiedono. Con mani invadenti e cazzi penetranti. E tutto, tutto finisce per ricadere sopra questo suo corpo, dentro questa sua amataodiata carne, da cui non sfugge. Se non cancellandola.
L’anoressia trova un modo eccellente per tenere fuori il mondo. Per espellere fuori dal corpo tutto quello scandalo. Tutta quella feroce bramosa insopportabile attenzione.
E questo è un primo motivo di fuga. Se la carne è la prigione in cui sono rinchiusa, allora ne toglierò il più possibile, mi libererò e diventerò spirito. E così sarò pura, pulita, libera da contaminazioni da parte di una realtà ambigua sporca e invadente che cerca un varco per penetrarmi dentro.
E poi c’è una grossa confusione postfemminista. Un sostanziale, sbalorditivo sbaglio di fondo. Noi donne abbiamo spesso dato per scontato che emanciparsi significasse essere come l’uomo. Per ritrovarci poi catturate negli stereotipi maschili, imprigionate dentro la velocità, la quantità, la fretta, la produttività.
E questo è un secondo motivo di fuga. Solo negando la mia femminilità, in realtà, posso vincere. La femminilità è una trappola, un laccio, un vincolo, un ostacolo. Un fardello, tutta quella carne pesante molle umida concreta. Tutto quel retaggio arcano e arcaico di fertilità e fecondità e sessualità oscura piena di recessi umidi. Tutto quel corpo che chiede insistentemente, scandalosamente di essere sottomesso. Sotto-messo. Riempito, posseduto. Qualcosa di cui mi devo sbarazzare, per essere pura, libera, leggera, svincolata, assoluta. Onnipotente.
E qui entra un terzo motivo di fuga. Questo mio corpo magro da impubere significa onnipotenza. Resto così, nel regno indeterminato dell’adolescenza. Non sono ancora qualcosa di preciso. Non mi sono individuata. Non sono “una donna”. E dunque posso essere tutto. Sono Proteo nella sua illimitatezza, pronta a cambiar forma appena qualcuno cerca di afferrarmi. Polivalente, piena di vie di fuga. Libera.
Infine spesso l’anoressica ha subito un cortocircuito sul piano delle regole. Qualcosa non ha funzionato nella trasmissione delle norme, che appaiono in qualche modo poco chiare, contraddittorie, inaffidabili. Piene di doppi vincoli, piene di non detto. C’è stata confusione su qual era il terreno di gioco di ciascuno. In qualche modo, lei è stata invasa. Lei come individuo non è stata rispettata. I suoi confini sono stati forzati, o mai nettamente individuati.
E dunque ora lei deve stabilire regole chiare.
E questo è un quarto motivo di fuga. Devo definire i miei contorni. Tracciare il limite invalicabile oltre il quale gli altri non possono passare. Sono ferrea, nella mia disciplina. Perché è questione di vita o di morte. E’ questione di sapere chi sono. Chi cerca di invadermi resterà fuori da questo muro che ho eretto, e che ho seminato di cocci di bottiglia.
Ecco perché un tempo l’anoressia veniva ritenuta un male incurabile. In realtà l’anoressica non accetta, da nessuno, il travalicamento del muro. E’ questione di salvezza per lei. Di vita o di morte. Di chi lei è. Se si lascia penetrare dal terapeuta, chiunque poi la potrà di nuovo violare. Una volta che il muro è crollato, il mondo la sommergerà di nuovo come un’alluvione incontenibile.
E allora? Che fare con questa folla sempre più numerosa di ragazze che un bel giorno della loro vita decidono che vivranno senza mangiare, e in questo modo attuano l’insurrezione più radicale che possa essere concepita contro le leggi dell’esistenza, contro i cardini stessi dello stare al mondo?
Forse vedere che l’anoressia non è altro che una malattia d’amore. Malattia di amore negato, di terrore di perdere l’amore altrui. Si soffre di meno quando il dolore lo si crea con le proprie mani, anziché quando si permette agli altri di procurarcelo. In fondo è qui la chiave di tutto. Escludere il mondo per eliminare il rischio di soffrire. Il terrore di non meritare amore.
La cura, in ogni caso, è l’aiuto a levare la maschera. A distogliere gli occhi dal sintomo, che urla in modo silenzioso e afasico attraverso quelle ossa che forano la pelle cercando di calamitare tutta l’attenzione, per concentrarsi invece su ciò che davvero sta cercando di parlare e non può. Perché l’anoressia, come un tempo l’isteria, non si fida della parola. L’isteria urlava al mondo l’indicibilità del reale. L’orrore di ciò che è e non può esser detto.
L’anoressia propone l’evidenza del dolore dentro la carne. Spostando sul piano del corpo quel che non può essere detto con le parole.
Ridare parole al dolore. Nominare. Riconoscere.
E abbracciare.
Con tutto l’amore del mondo.
Amiche mie. Amiche mie che ancora non vi vedete. Così ricche. Così travagliate. Così belle. Così sofferenti. Così deboli. Così forti.
Così generose, così piene di tutto quello che è. Amore. Bellezza. Intelligenza. Piccolezza. Fragilità. Accoglienza.
Così sontuose. Così carnose fonde vive nere luminose.
Carne, carne vita sangue sparse generosamente per la strada. E ho detto sparse perché tutto questo è femmina.
Femmina. Femmina. Femmina.
Amatevi, vi prego.
Che tutta questa vostra bellezza non vada dispersa dentro il vento senza portare frutto.