lunedì 28 gennaio 2008
Donna.
domenica 27 gennaio 2008
Yossl Rakover si rivolge a Dio.
Con Sabrina, Barbara e MariaGiovanna a Bologna
E' stata una buona giornata. Divertente per noi quattro, che abbiamo avuto finalmente l'occasione di vederci in carne e ossa e non solo sotto forma di avatar; e insieme anche densa di scambi, davvero profondamente sentiti e partecipati, con il pubblico in sala.
domenica 20 gennaio 2008
Bologna, 25 gennaio: Francesca Mazzucato presenta la collana Declinato al femminile
Sarà la curatrice Francesca Mazzucato a presentare la collana Declinato al femminile delle Edizioni Creativa. A Bologna, il 25 gennaio, alle 18 alla Biblioteca Lame in via Marco Polo 21/13.
Ci saremo tutte: Sabrina Campolongo, Barbara Gozzi, Antonella Lattanzi, MariaGiovanna Luini, Susanna Sarti ed io. Sarà una buona occasione per confrontarci sul senso e sulle prospettive di questa nuova collana che vuole essere, per usare parole della curatrice, "casa per scritture di donne al di là di tendenze forzate e strade obbligate".
Troverete qui tutte le informazioni.
Vi aspettiamo!
giovedì 17 gennaio 2008
Dei monti e dell'essere. Ovvero Mario Martinelli.
martedì 15 gennaio 2008
19 gennaio: Carmine Abate a Milano, Gianfranco Franchi a Sassari

venerdì 4 gennaio 2008
Così, è, oggi.
Bianco. Silenzioso. Luminoso.
Cade qualche fiocco ogni tanto. Ma pochi. Piccoli.
Non ha nevicato molto stanotte. Solo un po’.
Non è stata una buona notte, questa. Notte inquieta. Sogni. Risveglio.
Esco a camminare. Salgo per la strada che costeggia la mia casa, in salita. Vado su, verso la montagna. Verso il bosco.
La neve crocchia sotto le suole grosse degli scarponi, sulla curva. Ma fa caldo. La neve incomincia a colare. La sento scorrere come acqua dentro i tombini. Si assottiglia, per terra. In certi punti è già translucida, ci vedo l’asfalto attraverso.
Cosa cerco.
So che cerco qualcosa, su per questa strada.
L’ho fatta molte volte. Per tanti anni.
So che qui ho trovato. E siccome qui ho trovato, ci torno per trovare ancora.
Come se quello che cerco si potesse trovare in un punto preciso.
Cercavo la neve, anche. Volevo la neve bianca intatta che crocchia sotto i piedi, senza orme e senza macchia.
E non c’è. C’è questa neve sporca, già vecchia. Già macerata dalle ruote delle macchine, già passata.
C’è uno slargo, alla mia destra. L’entrata di una casa. C’è una chiazza di neve bianca qui, nuova, senza orme. Ci entro, avida, come si entra con la penna dentro una pagina bianca.
La mente.
La mente al lavoro che cerca metafore e lotta per avere il sopravvento sulle cose.
Voglio, non voglio. Mi piace, non mi piace.
So che non sto guardando per davvero.
So che non vedo. Non ancora.
Quel che vedo è quel che la mia mente vuol vedere. E se non lo vede è delusa e si ritira.
Piccola mente bambina capricciosa.
Cieca.
Esco dalla mia chiazza bianca. Ricomincio a camminare.
So che voglio quella visione lenta larga senza barriere che vede l’aria che fa il giro della terra. Che vede le radici che si intrecciano sotto il sentiero e dietro ai muri. Che vede il mare che contiene trichechi e balene gonfiarsi lento sotto la luna. Che vede la neve sciogliersi e grondare nella terra e salire su per i reticoli della linfa e su per le mani dei rami, e tornare in cielo.
Ma siccome voglio questa visione lenta e larga, e voglio proprio questa e non un’altra, adesso, subito, con la disperazione piccola e stanca di una bambina esasperata, allora la visione non c’è.
Vedo solo neve sporca e asfalto. E me, stanca, che cammino in salita. Cercando di mettere una coperta bianca sopra le cose, visto che il cielo non l’ha fatto bene abbastanza.
Rametti bucano il bianco, qui sopra il muro.
Sono belli, a raggera, verdi, ditini dritti in su fuori dal bianco. Ma so che li sto guardando ancora con gli occhi del giudizio.
Non li vedo davvero.
Li valuto.
Mi piacciono. Non mi piacciono.
Sono belli. Sono brutti.
La mente pesa e misura. Attacca etichette.
Sovrappone, testarda, quel che vuole e quel che non vuole a quel che è.
Posso sentire la mia spinta alla fuga. Oh, la sento, sì. Sono qui ma non ci sono. La mia mente continua il macinio continuo di questi giorni. Fugge in avanti, alla rincorsa del compito. C’è questo da fare. C’è questo da fare.
Fare, fare, fare.
Mostrare, dimostrare.
Alla rincorsa dello scopo. Proiettati verso la meta.
Cammino.
Anche questo mio camminare ha uno scopo. Ha una meta.
Voglio la visione.
E la voglio adesso.
Qui, perché qui è un buon posto per averla, lo so. Ci sono venuta per questo.
Cammino per vedere.
E siccome cammino per vedere, allora non vedo.
C’è una panchina. Tolgo la neve. Mi siedo.
E’ freddo. Ma buono. Sono vestita bene. Sono in un bozzolo caldo.
Sento la mia stanchezza. La mia preoccupazione.
Tutta questa tensione spasmodica in avanti. Tutto questo sforzo di conciliare cose tanto diverse.
All’improvviso ho tenerezza per me.
E’così sciocco volere visione, adesso. E’ già abbastanza se mi accolgo così come sono. Tutta intera, paure, stanchezza, ansia, bisogni. Volere e non volere. Cecità e limiti.
Io. Qui. Adesso.
Sì. E’ già abbastanza.
Sorrido. Respiro.
E sento che lascio andare.
Alzo gli occhi.
Lo vedo.
Oh, sì che lo vedo.
Il platano sta sopra di me.
Rami larghi contro il cielo bianco.
Le foglie marroni che pendono dai rami, tutte orientate in giù secondo la direzione della pioggia. I frutti tondi a pallina, neri, annodati sopra i giunti dei rami. Il tronco vivo, con la corteccia a macchioline grigie e bianche, così liscio, come la pelle di un animale.
L’albero, grande.
Sto lì coi piedi dentro la neve sporca che si scioglie, e lo vedo.
Sorrido.
Sorrido.
giovedì 3 gennaio 2008
"Giustiniano", di Pietro Ugolini
Sono stata fortunata. Una segnalazione da parte di cari amici mi ha fatto scoprire questo prezioso piccolo libro, opera prima di Pietro Ugolini, scrittore bolognese.
Pubblicato nel 2002 da Pendragon, ha avuto la sorte che hanno moltissimi libri dell'editoria indipendente: distribuzione lacunosa e scarsa visibilità su stampa e quotidiani. E, di conseguenza, insufficiente conoscenza da parte del pubblico. Peccato, perché questo testo merita davvero di essere letto.
Ne parlo su Lankelot, ottimo portale di arte e cultura:
Quando Rabbi Bunam stava per morire,
sua moglie piangeva. Egli disse: “Perché
piangi? Tutta la mia vita è stata soltanto
un imparare a morire”.
(Racconto Chassidico)
Scorrono le stagioni. Acqua passa sotto i ponti e foglie cadono germogliano e crescono. La neve copre ogni cosa e poi si scioglie, e poi il caldo sole di agosto martella sui sassi fino a farli roventi. E passa il vento sopra l’erba, caldo, tiepido, freddo, gelido. Frotte di pesci attraversano i fiumi, e poi il ghiaccio li ricopre.
Ogni attimo di vita contiene l’universo intero. Memore eppure immemore del perpetuo tornare del tempo su se stesso.
Nel romanzo di Ugolini ogni cosa ci si dispiega sotto gli occhi come nei quadri dei pittori fiamminghi. E’ un mondo vasto quello che vediamo, che si allarga a distesa in ogni direzione, dalle montagne alla remota profumata lontananza del mare, pieno di oggetti e attrezzi e animali e gente affaccendata, ognuno intento alle sue opere sui declivi dei colli, in minuziosa remota fuga prospettica.
E allo stesso tempo, come negli affreschi del ciclo dei mesi al Castello del Buonconsiglio di Trento, ci accorgiamo che ogni cosa ci sta sotto gli occhi nel suo contemporaneo esistere nel grande fiume del tempo. Ogni fontana, ogni ponte, ogni minuscolo sasso nasconde in sé insondabili profondità che si inabissano a ritroso nel passato e si proiettano in fuga nel futuro. Ogni luogo di questo immenso quadro, anche il più infimo e insignificante, ci disvela in silenzio il vertiginoso abisso del tempo: Poi continuò ad andare. Ai margini della strada, in quel punto esatto, c’erano delle acacie selvatiche che si muovevano quando si alzava il vento e si bagnavano quando la pioggia cadeva scrosciante o diventavano bianche, quando cadeva la neve. E poi, lontano, c’erano la montagne, le sue montagne, quelle che rimanevano là per sempre.
Perché ce lo dichiara fin dalla prima pagina, Pietro Ugolini. Il Tempo sarà il vero protagonista del suo racconto. Così come Sorella Morte.
“Ogni giorno vivo tutta la mia vita. Ogni giorno qualsiasi” ci dice Giustiniano nelle prime righe del testo. E di lui, vecchio farmacista ebreo e antifascista, sappiamo subito che vedremo la fine. Cronaca di una morte annunciata, potrebbe essere il sottotitolo di questo breve nitido romanzo. Con la differenza che Giustiniano sa bene quello che sta per accadere. Diversamente dal protagonista del romanzo di Marquez, si dirige verso il proprio destino in piena consapevolezza. In totale accettazione.E mentre Giustiniano cammina, con passo lento e vigile, verso la propria fine attraverso il quieto sommesso trionfo dell’epifania del mondo, lo accompagniamo nel suo tragitto, e siamo testimoni del dialogo che intreccia col Tempo e con la Morte...
Se avete voglia di leggere l'articolo per intero, potete trovarlo qui. Ma, credetemi, quel che davvero merita di essere letto è questo piccolo testo non ancora abbastanza conosciuto.
martedì 1 gennaio 2008
Tempo.
Tempo, auguro a tutti noi per questo anno che viene.
Il tempo di fermarci. Di smettere di correre e scappare.
Il tempo di tornare dentro noi stessi.
Il tempo di guardare il mondo fuori proprio dai questi nostri occhi. Il tempo di toccare gli esseri intorno proprio con queste nostre mani. Di ascoltarli proprio con queste nostre orecchie.
Il tempo di vivere.
Il tempo di essere.
Buon anno.