lunedì 28 gennaio 2008

Donna.



Scrivo di essere, questa volta, su GiornaleSentire. E dal momento che il mio essere dentro questo mondo si incarna in forma femminile, scrivo del mio essere donna.

Mettere al mondo, amare, nutrire, salvare. Io sono qui per questo.
Mi rendo conto che questa affermazione è destinata a far sobbalzare più di una donna, qui, oggi, in questo nostro mondo occidentale. Eppure io sento che il mio essere è fatto di questo. E sento che negarlo è quel che porta le nostre giovani donne verso quel radicale male di vivere che si chiama anoressia.

Sento, con un sapere che ha poco di razionale e molto di sotterraneo, che spesso l’emancipazione ha preso forme che imitano il maschile. Modelli maschili, obiettivi maschili. Produttività, carriera, fretta. Razionalità, mente. Dimenticandosi che il sapere femminile passa per canali spesso diversi dalla logica. O meglio, vede le cose con una logica, per così dire, molto meno logica. Una logica che sa anche del lato oscuro della logica, della sua tendenza, per esempio, a giustificare a posteriori scelte fatte per ben più pressanti ed atavici motivi, o a venire usata per allontanare urgenze percepite come troppo assillanti, troppo vicine, tanto da risultare insopportabili.

Insomma, noi donne abbiamo un punto di osservazione, diciamo così, molto più vicino al pelo della terra. Anzi, così vicino da stare a volte sotto terra, a guardare le cose dal verso della loro faccia più nascosta...

Se vi va di leggere il resto del testo, lo potete trovare qui.

domenica 27 gennaio 2008

Yossl Rakover si rivolge a Dio.

Credo nel sole, anche quando non splende;
credo nell'amore, anche quando non lo sento,
credo in Dio, anche quando tace.
(Scritta sul muro di una cantina di
Colonia, dove alcuni ebrei si nascosero
per tutta la durata della guerra)
Pubblicato per la prima volta nel 1946 su una rivista in lingua yiddish di Buenos Aires, questo brevissimo testo ha seguito percorsi di diffusione oscuri e sotterranei. Per anni ha viaggiato in silenzio di mano in mano, tradotto dall'yiddish in tedesco, inglese, francese, trasformandosi piano piano in leggenda. "Yossl Rakover si rivolge a Dio" di Zvi Kolitz, edito in Italia da Adelphi, fu a lungo supposto essere il testamento spirituale dell'ebreo Rakover, scritto prima di morire nella battaglia del ghetto di Varsavia del 1943. Solo in seguito fu rivelata la vera identità del suo autore, ebreo lituano tuttora vivente.
Per venti scarne sconvolgenti pagine, Yossl Rakover urla a Dio la sua fede. Nonostante.
"Il sole è ormai al tramonto, e ringrazio Dio che non dovrò rivederlo mai più" dice l'ebreo al Dio che nasconde il volto. "Qualcosa di strano è accaduto in noi: tutti i nostri concetti e i nostri sentimenti sono cambiati. La morte rapida, istantanea ci appare come una salvezza, una liberazione, la rottura delle catene. Le belve della foresta mi sembrano così amabili e care che è per me un profondo dolore sentir paragonare a belve gli scellerati che governano l'Europa. Non è vero che Hiltler ha in sé qualcosa di bestiale, è un tipico figlio dell'umanità moderna. E' stata l'intera umanità a generarlo e crescerlo." (...) Nell'inferno del ghetto in fiamme, con la sola compagnia di un bambino morto con sulle labbra il sorriso di chi "sa che la questione è del tutto irrilevante e priva di significato dinanzi allo splendore con cui si manifesta la gloria divina", Yossl Rakover interroga un Dio "che anche a me deve qualcosa, che mi deve molto", un Dio verso cui "il mio rapporto non è più quello di uno schiavo verso il suo padrone, ma di un discepolo verso il suo maestro. Chino la testa dinanzi alla sua grandezza, ma non bacerò la verga con cui mi percuote." E a questo Dio muto e nascosto chiede "Che cosa ancora, sì, che cosa ancora deve accadere perché tu mostri nuovamente il Tuo volto al mondo?", subito prima di gridargli la sua fede sconsolata: "Se con queste prove pensi di riuscire ad allontanarmi dalla giusta via, Ti avverto, Dio mio e Dio dei miei padri, che non Ti servirà a nulla. Mi puoi offendere, mi puoi colpire, mi puoi togliere ciò che di più prezioso e caro posseggo al mondo, mi puoi torturare a morte, io crederò sempre in te. Sempre Ti amerò, sempre, sfidando la Tua stessa volontà!"
Un testo possente, un terribile canto di amore disperato. Il libro di Giobbe dei nostri giorni.

Con Sabrina, Barbara e MariaGiovanna a Bologna

Cosa sia stata la prima uscita di gruppo delle autrici di Declinato al femminile ve lo lascio raccontare dalla voce divertita di Sabrina Campolongo.
E' stata una buona giornata. Divertente per noi quattro, che abbiamo avuto finalmente l'occasione di vederci in carne e ossa e non solo sotto forma di avatar; e insieme anche densa di scambi, davvero profondamente sentiti e partecipati, con il pubblico in sala.

domenica 20 gennaio 2008

Bologna, 25 gennaio: Francesca Mazzucato presenta la collana Declinato al femminile

Sarà la curatrice Francesca Mazzucato a presentare la collana Declinato al femminile delle Edizioni Creativa. A Bologna, il 25 gennaio, alle 18 alla Biblioteca Lame in via Marco Polo 21/13.
Ci saremo tutte: Sabrina Campolongo, Barbara Gozzi, Antonella Lattanzi, MariaGiovanna Luini, Susanna Sarti ed io. Sarà una buona occasione per confrontarci sul senso e sulle prospettive di questa nuova collana che vuole essere, per usare parole della curatrice, "casa per scritture di donne al di là di tendenze forzate e strade obbligate".
Troverete
qui tutte le informazioni.
Vi aspettiamo!

giovedì 17 gennaio 2008

Dei monti e dell'essere. Ovvero Mario Martinelli.



Ieri ho conosciuto un montanaro vero.
Ormai non sono molti quelli rimasti.
So che questa affermazione può suonare assurda. Io abito in mezzo ai monti. Tutto attorno a me, ad altezza variabile, ci sono paesini e villaggi. E qualcuno deve pur abitare in quelle case con le finestre illuminate.
Ma, ovviamente, non è di questo che sto parlando.
Certo che ci abitano. Meno di una volta, e con sempre meno bambini, questo sì. Ma i paesi in quota non sono certo ancora deserti.
No. Quello che voglio dire è che non basta vivere sui monti per essere dei montanari.
Quello che voglio dire è che ormai chi abita sui monti vive più o meno la stessa vita di chi abita in città. Spesso passa il giorno al lavoro in fondovalle, in qualche ufficio o in qualche azienda. Poi la sera rincasa, chiude la porta, e consuma il resto del suo tempo davanti alla tivù.
Sono pochi quelli che vivono di lavori legati alla montagna, a meno che non si tratti di attività connesse col turismo (e anche quelle sempre meno. Col riscaldamento globale la neve è un lusso e una rarità...). e di questi pochi, veramente minimi sono i giovani.
Mario Martinelli è un'eccezione a tutte le regole.
Classe 1962, dopo una vita movimentata e avventurosa che lo ha lasciato malato nel corpo e nell'anima, verso la fine degli anni '90 decide di compiere quello che lui definisce "un giro di vita". E si ritira a vivere a Zendri, in Vallarsa, a mille metri di quota, nella vecchia casa della nonna, in compagnia solo di una quindicina di capre e molti libri.
E qui, nel silenzio dei prati, dell'acqua, dell'aria, delle montagne, piano piano guarisce. E ricomincia a vivere.
E questo suo vivere prende la forma prima di cammino, spesso così erto da farsi pericolosa arrampicata; e poi, ma forse sarebbe meglio dire insieme, di scrittura.
Riempie taccuini e quaderni di pensieri, intuizioni, racconti, annotazioni. E disegni.
E poi, un giorno, un amico decide che tutta quella roba, tutte quelle pagine fitte di vita, vergate in caratteri minuti e regolari, non possono restare nascoste nel baule di nonna Alma. E le porta all'editore Stella di Rovereto.
Ed è così che, nel 2004, incomincia l'avventura letteraria di Martinelli.
E oggi, quattro anni, due editori e otto libri dopo, l'avventura continua. Un successo che piano piano si allarga e si spande, seguendo canali non commerciali, e dal Trentino dilaga con lenta costanza giù per le valli venete.
Gli scritti di Martinelli sono, come è inevitabile che sia, intrisi di montagna. Non c'è praticamente riga che non ci rimandi un paesaggio, un odore, un colore, una sensazione connessa con i suoi monti.
Eppure credo che definirlo scrittore della montagna sia riduttivo. Il vero paesaggio che ci mette davanti è il suo paesaggio interiore. Perché la montagna è per lui il luogo del più profondo contatto con se stesso.
Il suo è un approccio minimalista. All'arrampicata d'assalto di certo alpinismo puntato sui record, Martinelli contrappone un lento camminare fra le vette di casa, conosciute sasso per sasso, albero per albero. E' sempre il medesimo diorama che scorre nelle sue pagine: il Passo Buole, lo Zugna, il Jocolle, il Levante, il Cingelle, il Mezzana. La chiostra di monti che racchiude la Vallarsa. Ossa delle sue ossa.
Ci sono pagine che scorrono come l'acqua nei suoi libri. I miei preferiti sono quelli del ciclo del signor Broz, che amo per la totale sincerità dell'occhio che guarda, per la nudità sapiente del mezzo espressivo, e per un delizioso senso dell'umorismo che li pervade tutti.
E oggi?
Oggi Mario ha accantonato il progetto di metter su una bella stalla di capre con annesso caseificio. E sta realizzando che vendere libri sarà parte integrante del suo paesaggio futuro... a patto che non lo costringa a scendere troppo spesso a fondovalle.

martedì 15 gennaio 2008

19 gennaio: Carmine Abate a Milano, Gianfranco Franchi a Sassari





Due scrittori che stimo moltissimo, Gianfranco Franchi e Carmine Abate, presenteranno i loro libri lo stesso giorno, sabato 19 gennaio. Per fortuna la collocazione geografica dei due eventi renderà impossibile il trovarvi nell'imbarazzo della scelta... a meno che non possediate il dono dell'ubiquità. Nel qual caso, andate a vederli tutti e due, ne varrà la pena!

venerdì 4 gennaio 2008



Così, è, oggi.
Bianco. Silenzioso. Luminoso.
Cade qualche fiocco ogni tanto. Ma pochi. Piccoli.
Non ha nevicato molto stanotte. Solo un po’.

Non è stata una buona notte, questa. Notte inquieta. Sogni. Risveglio.
Esco a camminare. Salgo per la strada che costeggia la mia casa, in salita. Vado su, verso la montagna. Verso il bosco.
La neve crocchia sotto le suole grosse degli scarponi, sulla curva. Ma fa caldo. La neve incomincia a colare. La sento scorrere come acqua dentro i tombini. Si assottiglia, per terra. In certi punti è già translucida, ci vedo l’asfalto attraverso.

Cosa cerco.
So che cerco qualcosa, su per questa strada.
L’ho fatta molte volte. Per tanti anni.
So che qui ho trovato. E siccome qui ho trovato, ci torno per trovare ancora.
Come se quello che cerco si potesse trovare in un punto preciso.

Cercavo la neve, anche. Volevo la neve bianca intatta che crocchia sotto i piedi, senza orme e senza macchia.
E non c’è. C’è questa neve sporca, già vecchia. Già macerata dalle ruote delle macchine, già passata.
C’è uno slargo, alla mia destra. L’entrata di una casa. C’è una chiazza di neve bianca qui, nuova, senza orme. Ci entro, avida, come si entra con la penna dentro una pagina bianca.

La mente.
La mente al lavoro che cerca metafore e lotta per avere il sopravvento sulle cose.
Voglio, non voglio. Mi piace, non mi piace.
So che non sto guardando per davvero.
So che non vedo. Non ancora.
Quel che vedo è quel che la mia mente vuol vedere. E se non lo vede è delusa e si ritira.
Piccola mente bambina capricciosa.
Cieca.

Esco dalla mia chiazza bianca. Ricomincio a camminare.
So che voglio quella visione lenta larga senza barriere che vede l’aria che fa il giro della terra. Che vede le radici che si intrecciano sotto il sentiero e dietro ai muri. Che vede il mare che contiene trichechi e balene gonfiarsi lento sotto la luna. Che vede la neve sciogliersi e grondare nella terra e salire su per i reticoli della linfa e su per le mani dei rami, e tornare in cielo.
Ma siccome voglio questa visione lenta e larga, e voglio proprio questa e non un’altra, adesso, subito, con la disperazione piccola e stanca di una bambina esasperata, allora la visione non c’è.
Vedo solo neve sporca e asfalto. E me, stanca, che cammino in salita. Cercando di mettere una coperta bianca sopra le cose, visto che il cielo non l’ha fatto bene abbastanza.

Rametti bucano il bianco, qui sopra il muro.
Sono belli, a raggera, verdi, ditini dritti in su fuori dal bianco. Ma so che li sto guardando ancora con gli occhi del giudizio.
Non li vedo davvero.
Li valuto.
Mi piacciono. Non mi piacciono.
Sono belli. Sono brutti.
La mente pesa e misura. Attacca etichette.
Sovrappone, testarda, quel che vuole e quel che non vuole a quel che è.

Posso sentire la mia spinta alla fuga. Oh, la sento, sì. Sono qui ma non ci sono. La mia mente continua il macinio continuo di questi giorni. Fugge in avanti, alla rincorsa del compito. C’è questo da fare. C’è questo da fare.
Fare, fare, fare.
Mostrare, dimostrare.
Alla rincorsa dello scopo. Proiettati verso la meta.

Cammino.
Anche questo mio camminare ha uno scopo. Ha una meta.
Voglio la visione.
E la voglio adesso.
Qui, perché qui è un buon posto per averla, lo so. Ci sono venuta per questo.
Cammino per vedere.
E siccome cammino per vedere, allora non vedo.

C’è una panchina. Tolgo la neve. Mi siedo.
E’ freddo. Ma buono. Sono vestita bene. Sono in un bozzolo caldo.

Sento la mia stanchezza. La mia preoccupazione.
Tutta questa tensione spasmodica in avanti. Tutto questo sforzo di conciliare cose tanto diverse.
All’improvviso ho tenerezza per me.
E’così sciocco volere visione, adesso. E’ già abbastanza se mi accolgo così come sono. Tutta intera, paure, stanchezza, ansia, bisogni. Volere e non volere. Cecità e limiti.
Io. Qui. Adesso.
Sì. E’ già abbastanza.
Sorrido. Respiro.
E sento che lascio andare.

Alzo gli occhi.
Lo vedo.
Oh, sì che lo vedo.
Il platano sta sopra di me.
Rami larghi contro il cielo bianco.
Le foglie marroni che pendono dai rami, tutte orientate in giù secondo la direzione della pioggia. I frutti tondi a pallina, neri, annodati sopra i giunti dei rami. Il tronco vivo, con la corteccia a macchioline grigie e bianche, così liscio, come la pelle di un animale.
L’albero, grande.
Sto lì coi piedi dentro la neve sporca che si scioglie, e lo vedo.
Sorrido.
Sorrido.

giovedì 3 gennaio 2008

"Giustiniano", di Pietro Ugolini

Sono stata fortunata. Una segnalazione da parte di cari amici mi ha fatto scoprire questo prezioso piccolo libro, opera prima di Pietro Ugolini, scrittore bolognese.
Pubblicato nel 2002 da Pendragon, ha avuto la sorte che hanno moltissimi libri dell'editoria indipendente: distribuzione lacunosa e scarsa visibilità su stampa e quotidiani. E, di conseguenza, insufficiente conoscenza da parte del pubblico. Peccato, perché questo testo merita davvero di essere letto.

Ne parlo su Lankelot, ottimo portale di arte e cultura:

Quando Rabbi Bunam stava per morire,

sua moglie piangeva. Egli disse: “Perché

piangi? Tutta la mia vita è stata soltanto

un imparare a morire”.
(Racconto Chassidico)



Scorrono le stagioni. Acqua passa sotto i ponti e foglie cadono germogliano e crescono. La neve copre ogni cosa e poi si scioglie, e poi il caldo sole di agosto martella sui sassi fino a farli roventi. E passa il vento sopra l’erba, caldo, tiepido, freddo, gelido. Frotte di pesci attraversano i fiumi, e poi il ghiaccio li ricopre.
Ogni attimo di vita contiene l’universo intero. Memore eppure immemore del perpetuo tornare del tempo su se stesso.
Nel romanzo di Ugolini ogni cosa ci si dispiega sotto gli occhi come nei quadri dei pittori fiamminghi. E’ un mondo vasto quello che vediamo, che si allarga a distesa in ogni direzione, dalle montagne alla remota profumata lontananza del mare, pieno di oggetti e attrezzi e animali e gente affaccendata, ognuno intento alle sue opere sui declivi dei colli, in minuziosa remota fuga prospettica.
E allo stesso tempo, come negli affreschi del ciclo dei mesi al Castello del Buonconsiglio di Trento, ci accorgiamo che ogni cosa ci sta sotto gli occhi nel suo contemporaneo esistere nel grande fiume del tempo. Ogni fontana, ogni ponte, ogni minuscolo sasso nasconde in sé insondabili profondità che si inabissano a ritroso nel passato e si proiettano in fuga nel futuro. Ogni luogo di questo immenso quadro, anche il più infimo e insignificante, ci disvela in silenzio il vertiginoso abisso del tempo:
Poi continuò ad andare. Ai margini della strada, in quel punto esatto, c’erano delle acacie selvatiche che si muovevano quando si alzava il vento e si bagnavano quando la pioggia cadeva scrosciante o diventavano bianche, quando cadeva la neve. E poi, lontano, c’erano la montagne, le sue montagne, quelle che rimanevano là per sempre.
Perché ce lo dichiara fin dalla prima pagina, Pietro Ugolini. Il Tempo sarà il vero protagonista del suo racconto. Così come Sorella Morte.
“Ogni giorno vivo tutta la mia vita. Ogni giorno qualsiasi” ci dice Giustiniano nelle prime righe del testo. E di lui, vecchio farmacista ebreo e antifascista, sappiamo subito che vedremo la fine. Cronaca di una morte annunciata, potrebbe essere il sottotitolo di questo breve nitido romanzo. Con la differenza che Giustiniano sa bene quello che sta per accadere. Diversamente dal protagonista del romanzo di Marquez, si dirige verso il proprio destino in piena consapevolezza. In totale accettazione.E mentre Giustiniano cammina, con passo lento e vigile, verso la propria fine attraverso il quieto sommesso trionfo dell’epifania del mondo, lo accompagniamo nel suo tragitto, e siamo testimoni del dialogo che intreccia col Tempo e con la Morte...

Se avete voglia di leggere l'articolo per intero, potete trovarlo qui. Ma, credetemi, quel che davvero merita di essere letto è questo piccolo testo non ancora abbastanza conosciuto.

martedì 1 gennaio 2008

Tempo.

Sii un bocciolo in silenziosa vita sulla siepe.
Rimani qui. Non c'è bisogno di partire.
(Thich Nhat Hanh)



Tempo, auguro a tutti noi per questo anno che viene.
Il tempo di fermarci. Di smettere di correre e scappare.
Il tempo di tornare dentro noi stessi.
Il tempo di guardare il mondo fuori proprio dai questi nostri occhi. Il tempo di toccare gli esseri intorno proprio con queste nostre mani. Di ascoltarli proprio con queste nostre orecchie.
Il tempo di vivere.
Il tempo di essere.

Buon anno.