martedì 9 settembre 2008

Cesare Pavese nel centenario della nascita: se ne parla su Letteratitudine



Oggi c'è un interessante post su Pavese nel blog letterario di Massimo Maugeri.


Vale la pena di leggere i tre articoli proposti, e, per chi ne abbia voglia, anche di intervenire nel dibattito in corso.


Buona lettura.

Nuovo libro di Barbara Gozzi

E' in uscita per fine settembre il racconto lungo "La questione di Jekyll e Hide", ed. Il Foglio Letterario, della scrittrice e critica Barbara Gozzi.
Chi ha voglia di conoscere la genesi del testo, può dare un'occhiata a questo post, sul suo blog Frammentando.
Buona lettura.

venerdì 5 settembre 2008

Settembre. Buon autunno.

Mentre settembre ci regala una coda morbida d'estate, vi segnalo la nascita di un nuovo blog, la luna dentro il secchio. E poi vi estendo l'invito che mi ha inviato la poetessa Patrizia Garofalo:


Venerdì 19 settembre, ore 16.30
Sala G. Agnelli della Biblioteca Comunale Ariostea
Via Scienze, 17 - Ferrara


A proposito di Cuba
Patrizia Garofalo dialoga con Gordiano Lupi
attraverso due pubblicazioni:

Gordiano Lupi
Almeno il pane, Fidel.
Cuba quotidiana nel periodo speciale
(Stampa Alternativa)

Alejandro Torreguitart Ruiz
Adiós Fidel. All’Avana senza un cazzo da fare
(Edizioni A. Car. s.r.l., 2008)
Ben ritrovati,
buon autunno.

domenica 13 luglio 2008

Arrivederci a settembre

Questo blog fa pausa per un po'.
Si prende il tempo di vivere e restare dentro le cose, senza l'urgenza di rielaborare.
Si prende il gusto della lettura senza secondi fini. Per il solo gusto di leggere.
Si prende la quiete necessaria a far nascere quel che matura sottoterra.
Si prende l'ebbrezza di annegare nell'azzurro e nel verde.
Si prende il lusso del silenzio.
Buona estate. Ci rivediamo in settembre.

sabato 12 luglio 2008

Historica - Il foglio letterario n. 2: un articolo su Carlo Pastorino



E' uscito il secondo numero in formato cartaceo della rivista Historica - Il foglio letterario.
Questa volta contiene un articolo su Carlo Pastorino, scrittore dimenticato che con la trilogia "La prova del fuoco", "La prova della fame", "A fuoco spento" ha saputo narrare in modo asciutto e incisivo cosa sia stata la Grande Guerra.
Vi anticipo parte dell'articolo:

Sul Corno di Vallarsa: la Grande Guerra secondo Carlo Pastorino.

Ho fra le mani un libro ormai introvabile. E’ “La prova del fuoco”, di Carlo Pastorino, ed. Bastogi, 1982. Le pagine di quell’inconfondibile gradazione giallo avorio vecchio che viene dal contatto con molte mani ripetuto nel corso del tempo. Non più odoroso di stampa, ma di scaffale. Un libro dimenticato.
Perché sono andata a scovare proprio questo, fra i molti volumi che coprono i muri di questa stanza?
Il fatto è che da qualche giorno ho la sensazione di camminare in mezzo a una folla silenziosa, anche quando sono del tutto sola. Calco i piedi su questa terra che la primavera ha illuminato di verde e fiorito di crochi, e sento con forza la presenza di chi qui ha passato i suoi giorni prima di me.
Mi trovo in Vallarsa, la conca che sta racchiusa fra il massiccio del Pasubio e quello del Carega. Una piccola valle, così breve che la si può abbracciare tutta con lo sguardo, da cima a fondo. Pochi abitanti, una manciata di case spruzzate sui suoi fianchi irsuti di boschi e di cuscini di erica. Pochissimo traffico. Molto silenzio.
E così, la mattina, in piedi sulla sommità della collina, sotto i pinnacoli bianchissimi delle Piccole Dolomiti che sembrano così vicini da poterli toccare con le dita, e spaziando con gli occhi per tutta questa terra verde che si distende chiara ai miei piedi, faccio davvero fatica a credere che qui si siano combattute alcune fra le battaglie più feroci della Prima Guerra Mondiale.
Guardo il colle del Parmesan, laggiù, a poche centinaia di metri da me. Un panettone dalle forme morbide e materne, tutto lucente di erba tenera e di foglioline nuove, e devo fare uno sforzo per ricordarmi che lì, fra l’8 e il 12 giugno del 1916, sono morti duemila soldati. Duemila uomini, in soli quattro giorni. Invano, perché l’assalto italiano non mosse le posizioni nemiche che di pochi futili metri.
Poco lontano c’è quello che la gente del posto chiama “il prato dei bottoni”. Il corpi si sono sciolti nella terra, e di loro solo questo è rimasto. Bottoni.
E così potrei proseguire all’infinito. Perché qui ogni anfratto, ogni rotondità, ogni cresta, ogni vallone raduna muto i suoi morti. Decine di migliaia. C’è chi dice centomila. Tutti racchiusi in questo piccolo catino verde.
Ecco perché ho fra le mani il libro di Pastorino. Lui c’era, qui, allora. Ha visto. Ha vissuto. E’ rimasto per mesi tenacemente aggrappato a queste rocce “come le rondini ai cornicioni di una casa”, per usare parole sue. E nonostante quello che ha attraversato sia esperienza da togliere il sonno e la ragione, riesce a restituircene un racconto limpido e asciutto. Commosso, spesso. Ma anche estremamente lucido, e capace, nel resoconto nudo dei fatti di guerra, di raggiungere una cruda e essenziale concretezza che ci mette l’orrore ben chiaro davanti agli occhi. “Scagnetti portò una gravina. Presi io la gravina e scavai nello spiazzo sul quale era la tenda. La punta acuminata penetrò in qualche cosa di molle, e un non so che di liquido schizzò su. E col liquido ci investì un orribile fetore. Scagnetti si allontanò, inorridito. – E’ un morto! – gridò, poi, a distanza. Era un nemico. Povero nemico! E io avevo dormito, la notte, sopra di lui. Ora lo ricoprimmo ben bene, con molta terra, e la tenda fu trasportata più in là.”Così è Pastorino. Senza veli. Senza artifici retorici. Rivelatore, in questo, della sua matrice contadina, non guastata nella sua concretezza dagli studi letterari terminati poco prima che la storia lo precipitasse qui, sugli orli scoscesi di queste rocce. Verso la retorica continuerà a nutrire, del resto, una desolata avversione. Troppo atroce l’evidenza di quel che gli sta sotto gli occhi, per poter sopportare le parole di chi la vela e la imbelletta...

Chi avesse voglia di leggere l'articolo per intero lo trova qui, oppure in formato cartaceo, acquistabile presso la segreteria della rivista: info@historicaweb.com

il racconto "Le perle di resina" in "Lungo la strada"



Esce in questi giorni l'antologia di racconti "Lungo la strada", ed. Il Foglio di Gordiano Lupi, voluta dal direttore Francesco Giubilei per festeggiare il primo anno della rivista "Historica", ora alla sua seconda uscita in formato cartaceo.
"Lungo la strada" raccoglie alcuni racconti selezionati attraverso un concorso, e i migliori racconti pubblicati sui numeri precedenti di Historica.
All'interno dell'antologia si trova anche un mio racconto, "Le perle di resina".
Ve ne anticipo uno stralcio:


LE PERLE DI RESINA

Il liquido è fresco. Va giù per la gola liscio e robusto.
Amelia ne inghiotte un sorso.
Guarda suo fratello che parla con il padrone della cantina. E' seduto vicino a lei, nell'aria buia e calda.
Non è caldo come fuori, questo no. Però è caldo anche qui. Fa piacere avere davanti il bicchiere col vino bianco e fresco che appanna il vetro.
Ne ha tre di bicchieri davanti. Due di bianco e uno di un rosso tiepido e morbido, che riempie la bocca, scende senza sforzo nella gola e mentre inghiotti riempie le narici di aroma.
Prende un altro sorso, poi tiene in mano il bicchiere. Le piace sentire il piccolo globo liscio e freddo contro i palmi delle mani.
Rivolge la sua attenzione verso il fratello. E' tanto tempo che non lo vede.
"Le faccio assaggiare anche il Tebro" dice il cantiniere.
"Che cos'è? Non l'ho mai sentito."
Il fratello ha appoggiato i gomiti al banco di acciaio. Ha i capelli più corti. Sembrano anche più scuri.
"E' una nostra esclusiva. Lo facciamo solo noi. E' un vino scuro, quasi nero, molto forte e aromatico. Lo provi."
Il cantiniere versa in un altro calice un vino denso e molto scuro.
"Non è nemmeno trasparente" dice Amelia, guardando attraverso mentre il fratello beve.
Allunga la mano.
"Fammi assaggiare."
"No, aspetti. Do un bicchiere anche a lei." Il cantiniere ha già allungato un altro calice nella sua direzione.
"No, per piacere" dice Amelia ridendo. "Già cos avrò dei problemi a raggiungere la porta." Si sente avvolta da un'ovatta morbida e piacevole.
"Lo prenda."
Il cantiniere la guarda sorridendo, col calice proteso verso di lei.
"No, grazie. Assaggio da questo."
E' davvero molto forte e aromatico. Scuro e forte.
"Che sapore intenso."
"Sa di tannino" dice il fratello. "E del legno in cui è invecchiato."
"E' un vino che deve invecchiare a lungo. E' un parente del Teroldego, ma ancora più forte di gradazione."
Il cantiniere ha una bella faccia da valligiano. Una di quelle facce lunghe, scavate sulle guance, con gli occhi chiari e intelligenti. Io appartengo a queste valli pensa Amelia con soddisfazione. Sono nata qui, appartengo a questi posti. Prende un altro sorso e lo passa cautamente sulla lingua prima di inghiottirlo.
"E' proprio buono" dice.
"La cantina l'ha fondata mio padre all'inizio del secolo. E' quello lì nella foto."
"Volevo chiederglielo. Avevo notato la somiglianza."
Amelia guarda la foto appesa al muro. E' un vecchio con l'aria antica, coi baffi come si usavano all'inizio del secolo, seduto su una sedia in mezzo a un prato. Ha un bastone in mano e l'aria seria. Accigliata.
"Era un soldato dell'Austria, un Kaiser Jaeger. Non si era mai adattato al passaggio sotto l'Italia."
"Davvero, le assomiglia in modo impressionante."
"Per forza non si è adattato" dice il fratello. "Le regole erano tutte diverse. E' cambiato tutto."
"Lui non l'ha mai accettato."

"Era bello lì."
La macchina viaggia sotto il sole. I finestrini sono spalancati e entra aria calda.
"Sì, era bello" dice il fratello. "Non pensavo che sarebbe stato così. Credevo che ci attirasse perché voleva venderci del vino. Invece voleva davvero chiacchierare."
"Sì, voleva chiacchierare. E' stato bello." Sospira. "E' strano. E' stato proprio qualcosa di fuori dal normale."
Il fratello guida con calma. Le sembra abbastanza sicuro. Io non potrei guidare adesso, sono troppo ubriaca.
"Sono completamente ubriaca" dice. Il fratello ride.
"Pensa se ci facessero adesso la prova del palloncino."
Ridono.
Amelia si ricorda del braccialetto. Fruga nella borsa di paglia e lo trova.
Lo alza.
Lo guarda controluce con gli occhi socchiusi. Lo lascia scintillare al sole.
Il sole passa attraverso le grosse perle trasparenti, e fa scintillare la resina. Le grosse perle di resina lisce e ovali. Le perle lisce e trasparenti.
Luccica.
I colori sono ancora più violenti, col sole che passa attraverso.
"Guarda che bello. Ti piace?" dice allacciandoselo al polso destro e facendolo oscillare davanti agli occhi del fratello.
"Sì, è bello."
"E' un po' esagerato, ma mi piace tanto."
Lo guarda luccicare.
"Che peccato" dice il fratello.
"Che cosa?"
"Essere fuori. Non appartenere più a tutto questo. E' un peccato."
"Perché essere fuori?" dice Amelia. "Non sei fuori. Sei dentro. Basta volerlo." Le perle di resina luccicano e la pelle è abbronzata. Amelia si sistema meglio nel sedile con un sospiro.
La macchina viaggia nella strada stretta fra le vigne. Le foglie sono fitte, verde scuro. A destra il terreno è in discesa e si vede la città, a fondovalle.
"Guarda che bel cimitero" dice il fratello.
Amelia ride.
"No, è bello davvero. Guarda."
Amelia lo guarda passare alla sua destra. E' un cimitero molto piccolo, circondato da un alto muro di sassi nudi. Dentro ci sono dei cipressi altissimi e neri, con le chiome larghe che si toccano. Sono tanti, e seguono il perimetro del muro. Sembrano troppo alti e troppo grandi per quel piccolo cimitero. E' buio in mezzo alla luce del pomeriggio.
"Sai, a volte mi sento un'infiltrata."
Chiude gli occhi e si appoggia allo schienale con la testa rovesciata all'indietro. Sta molto bene.
"Forse è per il tuo modo di osservare le cose."
"E' come se fossi dentro le cose e ne facessi parte, però è come se non appartenessi del tutto a quello che faccio. E' come se fossi lì per guardare."
"E' il tuo modo di osservare."
"E' come se avessi sempre l'impressione di una via di fuga nascosta, di poter scappare quando voglio."
Sente di poter scappare quando vuole ma non vuole scappare. Le piace questo momento. E' una bella sensazione. Chissà quanto durerà. E' il vino. Di sicuro.
Adesso sono arrivati a fondovalle. C'è traffico. L'aria è torbida...
Maggiori informazioni le troverete qui.
Il libro si può acquistare presso l'editore, oppure su IBS, o su 365Bookmark.

martedì 8 luglio 2008

Martinelli: Dalla vita di un jobrero



Oggi parlo dell'ultimo libro di Mario Martinelli, "Dalla vita di un Jobrero", ed. La Grafica.
Ne parlo su Giornale Sentire, il bel portale di Corona Perer, giunto fra l'altro in questi giorni alla sua terza uscita in formato cartaceo.
Chi abbia voglia di leggere l'articolo-intervista su Martinelli e il suo nuovo libro, lo può trovare qui.

lunedì 7 luglio 2008

11 luglio, Antonella Lattanzi a Polignano a Mare

NEWTON COMPTON EDITORI

COMUNICATO STAMPA

Venerdì 11 Luglio ore 21,00
nell'ambito del festival letterario
IL LIBRO POSSIBILE
organizzato dall'Associazione Culturale Artes e dal Presidio del Libro "Cartesio"

ANTONELLA LATTANZI

Presenterà i suoi
Guida insolita ai misteri, ai segreti,
alle leggende e alle curiosità della Puglia
e
Leggende e racconti popolari della Puglia
con slideshow di fotografie sulla Puglia dello scrittore, giornalista e fotografo
Michele Traversa
ore 21 in Via Mulini - Polignano a Mare (Ba)

giovedì 3 luglio 2008

Kaddish profano per il corpo perduto, di Francesca Mazzucato



E' un libro potente.
Disturbante, forte, come sempre sono i testi della Mazzucato.
Ma non provocatorio. E' un testo che ha superato lo stadio della provocazione.
E' un libro che va al nocciolo. Che dice quel che è necessario dire.
E' un libro maturo.
Ne parlo su Kult underground. Ecco qui uno stralcio del testo:

"Questa è la storia di un viaggio. O forse, meglio, di un pellegrinaggio, che assume la forma fisica di un vagabondaggio attraverso le vie di Budapest. Ma la cui vera sostanza è un nudo e fiero itinerario fino alle sorgenti del sé.
Che Francesca Mazzucato fosse scrittrice coraggiosa, noi tutti che la leggiamo fin dagli esordi lo sapevamo bene. Abbiamo seguito negli anni, con un sottile brivido di turbamento che ci increspava la pelle, la sua spericolata indagine nei territori senza nome che aderiscono al corpo. Eros, malattia, morte sono stati a lungo suoi compagni di strada. Nominati a voce piena, senza reticenze e senza cautele. E credevamo che oltre non fosse possibile spingersi.
Eppure non è così. In un modo nuovo, sorprendentemente forte, calmo e maturo, questo libro ci insegna come si può ancora declinare la parola coraggio.
Un viaggio dunque. Un viaggio a Budapest. Che l’autrice ci racconta compiuto in compagnia di un caro amico, con cui un tempo ha condiviso stanze, cibo e amore. Ma soprattutto, sotto la guida potente e disarticolante delle parole di un grande della narrazione. Imre Kertész.
Sarà lui, il vecchio premio Nobel scampato al lager, a modulare la melodia di fondo che guida la Mazzucato per le vie di Budapest. A accompagnarla in quello che si configura come un itinerario di decostruzione del conosciuto. Un vero e proprio salto nel buio, che la scrittrice accoglie senza porre ostacoli. Pienamente disponibile a sbarazzarsi di quello che sa. A accogliere quello che è, cercando di non sovrapporvi etichette. Cercando di compierne un’autentica, immediata conoscenza.
Budapest come Marsiglia? Anche Marsiglia è stata un luogo dell’anima, per la Mazzucato. Un posto in cui fondere confini e contorni, facendosi acqua, asfalto, profumo di basilico e lezzo di porto. Lasciandosi annegare nelle parole saporose e disperate del suo cantore, Jean Claude Izzo. “Con le città vivo personali e segrete passioni”, ci dice l’autrice. Ed è vero. Le città le inghiotte, la Mazzucato. Ne inala i profumi, ne assimila per mimesi le forme e i colori. Diventa le vecchie che passano per strada con le borse gonfie di povera spesa. Ne riflette le zone d’ombra, i vicoli bui.
“Diventa” la città.
Eppure Budapest rappresenta una sfida ben più difficile. Perché così diversa. Così totalmente altra. Percorsa da una lingua che non assomiglia a nessun’altra, in Europa. Odorosa di spezie zingare e di musica klezmer. Multiforme, stratificata, sfuggente. Inafferrabile. Inclassificabile..."


Chi ha voglia di leggere l'intero articolo, lo troverà qui.

martedì 17 giugno 2008

Guarire.

Ah, non è così, è il contrario!
Non da fuori a dentro, ma da dentro a fuori!
Ah, sciocca, sciocca, sciocca!
Dimentichi quel che sai. L'unica cosa che vale la pena di sapere.
Che non c'è niente da sapere.
Non hai, non sai, non vuoi.
Sei quello che sei, e questo è abbastanza.
Sta in mezzo a quello che è.
E ridi! E gioca!
E canta!
Canta con tutto il fiato che hai in corpo.
Lasciati suonare da dio.
Dio mio.
Come ho fatto a dimenticare?
E' stato tornare nel mondo. Ho pensato che non ci fosse altra scelta che giocare secondo le regole del mondo.
E invece il gioco non ha regole. Non sta in terra di compravendita. Non conosce dare o avere.
E invece il gioco è un gioco di bambino.
E invece questo è il gioco di dio.
Ah, dio.
Aiutami a giocare senza voler comprare.
Aiutami a giocare senza voler vendere.
Aiutami a danzare.
Senza pensare.

giovedì 12 giugno 2008

Lei.

Non sa perché il tutto prenda questa forma.
Sa solo che è così. Le si materializza dentro un’immagine scura, chiusa. A volte un corridoio largo, con quelle luci al neon troppo bianche, che fanno sembrare le facce livide e le labbra viola. Certe volte invece una specie di androne buio, come quei cavedi immensi dei centri commerciali, dove si affacciano le scale mobili e gli ingressi di tutti i negozi.
Non è un posto preciso. E’ più una specie di idea primitiva, di archetipo di un posto. E mentre lo vede sa che è il condensato di tutto quel che è triste e desolato.
Non smette di fare quello che sta facendo durante queste improvvise visioni. Per esempio continua a sistemare le gerbere dentro il vaso bianco, e le allarga a ventaglio con le mani finché ogni capocchia non si vede bene. Non ama molto le gerbere. Le fanno pensare troppo alle margherite. E, non sa perché, ma le margherite non le sono mai piaciute. Ha sempre pensato che sono un fiore triste, anche se non saprebbe spiegare il motivo. Ma le sue clienti amano le gerbere, forse perché fanno tanta figura, sono larghe e colorate, così rosa e occhiute, e ne bastano poche per riempire il mazzo.
Lei ama fiori più semplici. I tulipani, per esempio. Così nitidi, così ridotti all’osso. Un fiore a forma di bicchiere, un gambo carnoso, e basta. Ne porterebbe a casa mazzi interi, fasci, bracciate, se potesse. Ne riempirebbe i vasi di vetro fino a comprimere gli steli grassi contro le pareti trasparenti, fino a non far restare posto per l’acqua. Le piace come si premono una addosso all’altra le corolle, con quel rumore turgido di tessuti carnosi gonfi di linfa.

mercoledì 11 giugno 2008

Piove.

Piove.
Sull'asfalto e sui cespugli di fiori bianchi.
Fra le pozzanghere che ingorgano la terra incapace di bere crepitano cespi di erba rigogliosa.
Guardo salire le nuvole fra i fianchi di questa valle. Seguo gli scrosci grigi che scendono a tende sul bosco e sulle rocce. Teli di pioggia fini che si impigliano sulla cima del Corno, stracci di nuvole color della cenere che si disfano sopra la mia testa, su fra le foglie strappate via dal vento.
Il tuono che rotola. I lampi giù, in basso. I fari delle macchine che risalgono su per la valle, piano, fendendo cauti il vapore grigio.

Sotto i rami fini inquieti della betulla che sventola le sue foglie piccole dentro il vento, all'improvviso so che non ho niente.
Sono grata. A loro, che sono. Al loro mostrarsi. Al loro esistere.