sabato 26 aprile 2008

Ogni cosa rimanda alle radici.

Qui tendi a vedere le cose dal verso di sotto. Cammini sulla terra soda, e la senti rimandare il passo chiodato di chi ci sta mescolato dentro. Ci sono ancora i vecchi, qui, che si ricordano i racconti della Grande Guerra. Che ti indicano un ciliegio che non si può tagliare, perché il tronco è così irto di schegge di granata, dentro, che spezzerebbe la sega. Che ti fanno vedere il posto dove si sono impiccati due ragazzi, e uno aveva il santino della Madonna appoggiato alle radici dell’albero. Così sfiniti dall’orrore senza soluzione di quella guerra, che la morte, certa e subito, era loro parsa un ristoro. Un sollievo.

Cammini, e ti senti accompagnato. Questa valle, oggi, sotto questo sole che staglia i contorni di ogni singola cosa come se fossero ritagliati con le forbici, e massi e gole e neve e guglie e foglie verdi e trasparenti e rami teneri di larice e crochi e fili d’erba, questa valle è un catino che raccoglie ombre.

E tu, camminando, sai che di questa terra soda che sostiene i tuoi piedi c’è la faccia di sopra e la faccia di sotto.

lunedì 21 aprile 2008

E' così adesso.
Nuvole che passano e piovono e fanno l'erba molle e poi il sole scalda e fermenta i succhi della terra. Prati di fiori che la sera prima non c'erano e al mattino sbocciano fino all'orizzonte. Aria che un po' è calda e un po' scompiglia e soffia, e ti cerca la pelle sotto i vestiti. Il piovere gemente e scrosciante e tiepido dentro l'aria infantile, nuova, tenera, incapace di mordere anche quando la neve accarezza la montagna dietro casa. La sensazione mite e molle al mattino di penetrare in un liquore cristallino, soave al tatto, dolce da respirare.
Il bosco.
Marrone sotto, delle foglie vecchie e degli arbusti bagnati dalla pioggia. Ramaglia dell'anno scorso che luccica, rossa, incendiata dagli scrosci tiepidi.
E sopra, una profusione tenera di monetine verdi.
E poi, in mezzo, il verde smeraldo fulgente e sfolgorante delle erbe imperlate di gocce. Quel verde fiammeggiante, potente, rizzato in su verso il cielo a spadoni larghi e dritti.
Silenzio. Solo lo scroscio della pioggia a bagnare la carne tenera intorno al cuore.

lunedì 7 aprile 2008


Qui sotto, sto.

Ai piedi di queste pareti dure e grigie, roccia su roccia su roccia, e sopra cielo blu lapislazzuli, come nella volta del Giudizio Universale. E torri di nuvole bianche, e la valle che si sdraia verso nord ancora addormentata nel freddo della primavera che non vuole arrivare. I prati che assomigliano ai fianchi di un animale, prati in pelliccia invernale, a pelo lungo, gialli, coi molli fili flosci e lanosi come i dorsi delle capre tibetane.

Cuscini di erica, sorprendenti freschi freddi erti vivi, rossi, in mezzo al grigio secco sfinito dell'inverno asciutto.

E' buono l'odore dell'aria. Un odore largo e vasto, passato dentro il silenzio dei crepacci e tra le dita dei pini. Pulito dal pettine profumato delle mughe. Ti sorprende ogni volta che apri la finestra. Ogni volta non ti ricordi che profuma così. Ogni volta sorridi, stupito.
E lui ti nutre. Ti sazia.
E poi c'è la terra.
Questa terra. Concreta e bruna. E sai che ossa di uomini ci si impastano dentro.
Calchi le zolle, e sai che dentro, diluiti nella terra scura, ci sono loro.
Italiani, austriaci.
Un unico impasto di fango, lombrichi, radici, foglie, pallottole, bulbi di crochi, fibbie di zaini, suole di scarpe, nidi di termiti, culatte di bombe, sassi, formiche, escrementi di cervo e ossa ormai disfatte.
Da tanti anni.

Le cartucce sono rimaste. Le ossa si sono sciolte, le cartucce sporgono la corona ossidata dalle spaccature del terreno. Sai che sono state sparate dal colpo che il percussore ha lasciato marchiato sul fondo.
Le raccogli, le spolveri. Te le metti in tasca.
Non sai perché.
Te le metti in tasca.
E ti senti un po' colpevole.
Souvenir dalla Grande Guerra?
No.
Presenza.
Segno, ricordo, materia concreta del loro essere qui. Impastati dentro la terra su cui cammino. Presenti, presenti. Dentro l'aria che respiro.

giovedì 3 aprile 2008

"Yoko Ono sono io", di Loris Zecchini

Sul portale di arti e scienze Lankelot parlo dell'opera prima di Loris Zecchini "Yoko Ono sono io", edizioni Creativa, uscito in libreria da poche settimane.
Libro intrigante, scritto con lo stile sicuro e personale di chi ha grande consuetudine con la lettura, prima ancora che con la scrittura, questo romanzo fa emergere alla luce un autore interessante, che promette di tornare a breve sugli scaffali delle librerie. Uscirà infatti fra qualche mese un suo nuovo libro, "Sayonara da un'ora", questa volta per i tipi dell'editore Giraldi.

L’impotenza piccola e disperata dell’infante.
Questo ho pensato, chiudendo l’ultima pagina del libro di Loris Zecchini.
Cosa mi resta dietro il velo rosso delle palpebre dopo che l’ultima riga è scorsa via, mi sono chiesta.
Questa sensazione algida di raggelata sospensione. E insieme, questo senso di nitida chiarezza.
Perché questo è, la scrittura di Zecchini. Un raggio laser. Che disegna i contorni di eventi e oggetti con bagliore limpido, nitido, perfetto. Mettendoti davanti, senza scampo, il loro terso, desolante squallore.
Opera prima di un autore schivo e riservato, poco affine ai meccanismi di compravendita che governano il mercato dell’editoria, “Yoko ono sono io” ci mette all’occhio il foro del caleidoscopio. Ci mostra la girandola di allucinazioni pensieri emozioni odii rancori dolori lacerazioni abbandoni che roteano luccicanti come scaglie dentro il corpo di Mia e Nadir, fratelli ricongiunti dalla morte della madre. E lascia che siamo noi a cercare di condurre un filo, per dir così, logico, che leghi gli atti che si svolgono sotto i nostri occhi.
Niente ci viene raccontato. I fatti ci si parano davanti attraverso il filtro ora degli occhi dell’una, ora dell’altro. E piano piano impariamo a riconoscere il timbro della voce interiore di ciascuno dei due fratelli, più nitido e lucente quello di Mia, più lutulento e avviluppato quello di Nadir.Quel che ci si mostra, in realtà, è l’agglutinarsi progressivo che subisce il loro destino. “Certe cose del passato ti restano dentro come un drago.” Intrappolati in una gabbia fatta di tempo andato, ricordi e rancori, i due fratelli sembrano prodursi nella dimostrazione pratica di un processo di entropia. Mano a mano che procedono le ore, e che si accresce l’ampiezza del moto oscillatorio percorso dalle emozioni, parallelamente aumenta il caos e la disarticolazione degli spostamenti che i due compiono nello spazio, fino a giungere a un vagolare totalmente infantile e impotente...
Chi ha voglia di leggere l'articolo per intero lo troverà qui.

lunedì 31 marzo 2008

E ora, dopo la pioggia, l'erica se ne sta lì ruvida e erta, punte di spillo confitte per terra, matassa viva che sbuca fuori dalla cotica gialla dell'erba.

Strano contrasto questo. Floscio sbiadito pelo bruno di pelliccia invernale contro il rosa rubescente di questo cuscino fiorito.

Fresco tripudio selvatico. Mite. Vivente.

domenica 30 marzo 2008

Hammam della Rosa: le Declinate a Milano

Serata speciale per le autrici di Declinato al Femminile, venerdì sera. Ospiti dell'Hammam della Rosa a Milano, abbiamo chiacchierato, raccontato, riso e sudato insieme ai nostri ospiti condividendo profumi di olii essenziali e umidità da foresta pluviale amazzonica. Insieme alla direttrice della collana, Francesca Mazzucato, faceva gli onori di casa Luciana Viarengo, caporedattrice della rivista letteraria PaginaUno.

Troverete un racconto della serata su BaleneBianche, e altre foto sul nuovo openblog/webmagazine Declinato al Femminile.

domenica 24 febbraio 2008

Di fronte a Cézanne. Note libere a margine di una mostra.

E' vero. Con la "Casa dell'impiccato" improvvisamente qualcosa cambia.

Tocca le cose per la prima volta. Improvvisamente il corpo delle cose c'è. Prima non c'era e poi all'improvviso c'è.

La fatica. I piccoli progressi tecnici. I quadri in cui le cose non sono state toccate. Imperfetti, abortiti. Falliti.
E poi all'improvviso la rivelazione.
All'improvviso, tutta insieme, tutta insieme.

Sono molto stanca. Ho fatto tutto nel modo più faticoso. Forse era l'unico modo per farlo. L'unico modo per farlo in modo che servisse a qualcosa, intendo. Per poter mangiare, respirare Cézanne dovevo essere sola. Tutta sola in mezzo a questa selva di gambe e braccia e toraci, sola in mezzo a questa foresta di busti e teste che passano piano davanti ai quadri e li coprono e li svelano e parlano sottovoce lingue sconosciute e straniere.
Sola.
Sola per poter piangere senza dover spiegare niente.
Per poter toccare i quadri con le labbra le dita gli occhi la pelle la carne. Carne della mia carne ossa sangue e respiro inalato fino in fondo al torace.

Grazie perché tutto questo è stato fatto. Grazie perché c'è. C'è.

Cantare come un uccello questo canto immenso.
Cantare come lui ha dipinto. Mio dio.

La sua Madame Cézanne con la veste sontuosa che illumina il viso di bagliori verdi e azzurri. Il colore prezioso che cova sullo sfondo. Un oro denso e cupo. Fluido e pastoso. L'incarnato del viso soffuso di giallo. Prezioso. Denso. Racchiuso. Raccolto.


Il pennello che vaga sulla tela in modo cangiante. Sai che cambia ma non ne vedi il punto di rottura. Solo modula da una tonalità all'altra come la coda di un pavone.
Il viso lontano e eterno. Gli occhi antichi. Composti e fondi, eppure lontani come di chi sa senza dire. Senza bisogno di sapere.

Il verde e l'azzurro. Ci sono quadri in cui ci sono, ma non sono liberi. Sono velati, come trattenuti da una patina scura, frenati, nascosti.
Nascosti da uno schermo affumicato.
E poi all'improvviso alzi gli occhi e ti invadono.

Un sommergente straziante urlo azzurro ti ferisce al cuore.

E all'improvviso in un piccolo quadro c'è tutto.

Il ritratto di Choquet. Quel vagare compatto e modulato del pennello. Che cattura la luce, e la incarna, la stampa nelle cose. Nella carne delle cose. Materia fluida che modula da un colore all'altro. Che infinitamente si trasforma e resta sempre la stessa materia. Densa. Fonda. Fluida.

Lui prega mentre dipinge.
Dipingere è la sua preghiera. Il suo canto di uccello.
Questo so.

In questi quadri il verde e l'azzurro e il giallo denso e i rossi corposi cantano con voce acutissima, tanto acuta da essere a stento sopportabile. C'è bisogno di abbassare gli occhi e poi alzarli piano, e distogliere lo sguardo molte volte, per non restare abbagliati.

Per questo il primo giorno ho potuto solo piangere. Io non mi aspettavo tutto questo. E' stato troppo, tutto insieme. E sono rimasta abbagliata.
Sapevo di dover tornare. Sapevo che una volta non era abbastanza.
Dovevo tornare con la vista più salda e sicura, con fermezza. Sapendo.
Tornare a imparare.
Io so che valeva tutta questa fatica. Oh sì.
Oh sì.
Sì.

Lui sente il respiro nelle fronde. Il respiro fondo e vagante fra le foglie e nell'acqua densa e fluida che riflette e dà corpo.

L'acqua. L'acqua sembra avere una profondità che svela le cose. ne rivela la densità, ne esalta la corposità. Ciò che si riflette nell'acqua è più denso di ciò che viene riflesso.

La scura ombra sotto le fronde verdi. E' un'ombra che contiene tutta la luce del giorno, la cova e la trattiene nel cavo luminoso e buio del ventre della terra. E' un buio intriso di luce. Ombra fonda e luminosa.

E nonostante l'abbagliante chiarezza di questi quadri, sai che contengono una nota oscura, un punto di nero che si mescola ad ogni cosa. Qualcosa che alla lunga respinge lo sguardo, che non si fa penetrare. Compattezza impenetrabile.

Le cose. La loro pienezza. La loro presenza. La loro impenetrabile ostile violenta assenza di moto. Assenza di vita.

Presenza. Presenza.
Presenza.
Essenza.
Esasperante presenza.
E basta.

Il vaso blu.

Il grigio che non è mai grigio. E' un insieme vibrante di colori primari spezzati che tremano silenziosi dietro le cose.

Il vaso blu.

E poi alla fine la luce si fa più chiara e il velo sparisce. Vibrare di luce. Musica.
Chiara musica luminosa.

Donna con la caffettiera.

Presenza.
Pura densa quieta presenza.

E alla fine eccole, le bagnanti. Dopo tutta una vita di tentativi eccole.
Verde e blu vibranti e saettanti. E il rosa blu delle pelli che assomigliano all'acqua e all'erba.
Assomigliare.
Finalmente le ha fatte assomigliare.

La sua grande preghiera.
La sua grande cattedrale di rami e cielo e luce vibrante e acqua e pelle nuda e senza niente altro.
La sua grande cattedrale di luce.

Era indispensabile viaggiare totalmente soli.
Essere disancorati da ogni pensiero, privi di fascino a cui aggrapparsi, privi di coperture e difese.
Solo così si poteva vedere.
Ora lo so.
Ora so perché.

martedì 12 febbraio 2008

Renata Adamo recensisce "Cocci di bottiglia" su Lankelot

Renata Adamo parla di "Cocci di bottiglia" sul portale di scienza e cultura Lankelot, e lo fa con la mente e con il cuore insieme. La ringrazio profondamente per l'acuta attenzione che ha dedicato al testo, e per la capacità plastica di condensare il pensiero in immagini di grande suggestione ed efficacia.

venerdì 1 febbraio 2008

Forare la boccia di vetro

E poi un giorno ti accorgi che riconosce le lettere. Cinque lettere.
Ci hai lottato per mesi. Gliele hai proposte in tutti i modi, scritte, a computer, di legno, a incastro, magnetiche, a puzzle, e ora cominci a sentire che è inutile. Lui non parla. Forse questo insistere su suoni che non sa produrre non ha senso.
Alla logopedista hai detto "niente, non ci sono segni di associazione suono-simbolo ancora", e con questo volevi dire mi do per vinta. Va bene, allora ripieghiamo su obiettivi più concreti, tipo allacciarsi le scarpe. Oppure versare acqua da una bottiglia. Almeno quello gli servirà nella vita.
Lasciamo perdere. Aspettiamo. Rimandiamo.
E il giorno dopo lui forma la sillaba DA. Così, veloce. Sicuro. Tu glielo chiedi e lui lo fa.
Ecco.
Resti a guardarlo con la bocca aperta.
E poi ti vien da ridere.
Ti ha spiazzata anche questa volta.
Ma siccome non ci credi del tutto, gli chiedi di formare anche la sillaba DO.
E lui lo fa.
Resti a guardarlo in silenzio.
E ti si stringe il cuore.
Perché questo vuol dire che lui saprà parlare.
Lui saprà scrivere. E leggere.
Non importa quanto ci vorrà. Anni, ancora. Ma imparerà. Lui leggerà. Scriverà. Parlerà.
Forerà la boccia di vetro.
Saprà portar fuori quel che c'è dentro.
Glielo dici.
"Riccardo, tu imparerai a parlare."
Lui ti guarda.
E tu sai, lo sai, che capisce.

lunedì 28 gennaio 2008

Donna.



Scrivo di essere, questa volta, su GiornaleSentire. E dal momento che il mio essere dentro questo mondo si incarna in forma femminile, scrivo del mio essere donna.

Mettere al mondo, amare, nutrire, salvare. Io sono qui per questo.
Mi rendo conto che questa affermazione è destinata a far sobbalzare più di una donna, qui, oggi, in questo nostro mondo occidentale. Eppure io sento che il mio essere è fatto di questo. E sento che negarlo è quel che porta le nostre giovani donne verso quel radicale male di vivere che si chiama anoressia.

Sento, con un sapere che ha poco di razionale e molto di sotterraneo, che spesso l’emancipazione ha preso forme che imitano il maschile. Modelli maschili, obiettivi maschili. Produttività, carriera, fretta. Razionalità, mente. Dimenticandosi che il sapere femminile passa per canali spesso diversi dalla logica. O meglio, vede le cose con una logica, per così dire, molto meno logica. Una logica che sa anche del lato oscuro della logica, della sua tendenza, per esempio, a giustificare a posteriori scelte fatte per ben più pressanti ed atavici motivi, o a venire usata per allontanare urgenze percepite come troppo assillanti, troppo vicine, tanto da risultare insopportabili.

Insomma, noi donne abbiamo un punto di osservazione, diciamo così, molto più vicino al pelo della terra. Anzi, così vicino da stare a volte sotto terra, a guardare le cose dal verso della loro faccia più nascosta...

Se vi va di leggere il resto del testo, lo potete trovare qui.

domenica 27 gennaio 2008

Yossl Rakover si rivolge a Dio.

Credo nel sole, anche quando non splende;
credo nell'amore, anche quando non lo sento,
credo in Dio, anche quando tace.
(Scritta sul muro di una cantina di
Colonia, dove alcuni ebrei si nascosero
per tutta la durata della guerra)
Pubblicato per la prima volta nel 1946 su una rivista in lingua yiddish di Buenos Aires, questo brevissimo testo ha seguito percorsi di diffusione oscuri e sotterranei. Per anni ha viaggiato in silenzio di mano in mano, tradotto dall'yiddish in tedesco, inglese, francese, trasformandosi piano piano in leggenda. "Yossl Rakover si rivolge a Dio" di Zvi Kolitz, edito in Italia da Adelphi, fu a lungo supposto essere il testamento spirituale dell'ebreo Rakover, scritto prima di morire nella battaglia del ghetto di Varsavia del 1943. Solo in seguito fu rivelata la vera identità del suo autore, ebreo lituano tuttora vivente.
Per venti scarne sconvolgenti pagine, Yossl Rakover urla a Dio la sua fede. Nonostante.
"Il sole è ormai al tramonto, e ringrazio Dio che non dovrò rivederlo mai più" dice l'ebreo al Dio che nasconde il volto. "Qualcosa di strano è accaduto in noi: tutti i nostri concetti e i nostri sentimenti sono cambiati. La morte rapida, istantanea ci appare come una salvezza, una liberazione, la rottura delle catene. Le belve della foresta mi sembrano così amabili e care che è per me un profondo dolore sentir paragonare a belve gli scellerati che governano l'Europa. Non è vero che Hiltler ha in sé qualcosa di bestiale, è un tipico figlio dell'umanità moderna. E' stata l'intera umanità a generarlo e crescerlo." (...) Nell'inferno del ghetto in fiamme, con la sola compagnia di un bambino morto con sulle labbra il sorriso di chi "sa che la questione è del tutto irrilevante e priva di significato dinanzi allo splendore con cui si manifesta la gloria divina", Yossl Rakover interroga un Dio "che anche a me deve qualcosa, che mi deve molto", un Dio verso cui "il mio rapporto non è più quello di uno schiavo verso il suo padrone, ma di un discepolo verso il suo maestro. Chino la testa dinanzi alla sua grandezza, ma non bacerò la verga con cui mi percuote." E a questo Dio muto e nascosto chiede "Che cosa ancora, sì, che cosa ancora deve accadere perché tu mostri nuovamente il Tuo volto al mondo?", subito prima di gridargli la sua fede sconsolata: "Se con queste prove pensi di riuscire ad allontanarmi dalla giusta via, Ti avverto, Dio mio e Dio dei miei padri, che non Ti servirà a nulla. Mi puoi offendere, mi puoi colpire, mi puoi togliere ciò che di più prezioso e caro posseggo al mondo, mi puoi torturare a morte, io crederò sempre in te. Sempre Ti amerò, sempre, sfidando la Tua stessa volontà!"
Un testo possente, un terribile canto di amore disperato. Il libro di Giobbe dei nostri giorni.