La mattina dopo era una mattina abbagliante. Un sole autunnale basso e radente, e tagliente di luce acutissima, che accarezzava tutte le cose e le rivelava senza scampo, minuziose, piccolissime.
Il viaggio dietro al feretro è stato così strano. Quella strada che non riconoscevo, gratificata di quella luce così diversa da sempre, così inclinata, e insieme così potente. I colori erano diversi, le luci, le cose, i pini, le colline, ogni cosa diversa e bellissima. Il mare, a destra, blu profondo ogni tanto dietro le colline, contro l’azzurro tenero del cielo.
Il viaggio in nave coi parenti, e con la sensazione di essere una di famiglia. Una di casa.
E uscire dalla nave dentro quella luce dorata, sparsa sui muri delle case come una lastra gialla, impregnata nelle molecole dell’aria azzurra, appoggiata su ogni singola foglia, inclinata a metà, frugante fra i rami, cercante fra i cespugli del bosco a svelare il mare là sotto, l’azzurro dentro il buio dei lecci.
Dio che bella l’isola, che bella, una bellezza mozzafiato, sconvolgente e di sorpresa, una bellezza inaspettata e schiaffeggiante, urlata, graffiante, luminosa di quella luce morente e cantante di tardo autunno.
Che bella che bella che bella che bella.
Dietro la bara, in fila. Micol e Stefano, Stefania di Giulio, Giuseppina, zio Elvio. Corteo di parenti. Curva curva per quella strada così nota che a pensarla mi si stringe il cuore di nostalgia.
Lo spazio aumentava. Mano a mano, l’orizzonte si allargava a contenere il mondo.
L’isola era lì, e era quello che era. Era una meraviglia. E c’era. C’era, e anche lei c’era, e questo fatto era qualcosa di meraviglioso. L’orizzonte era così vasto, e comprendeva lei e questa luce che piano piano virava al violetto mano a mano che si abbassava sull’orizzonte. E non c’era contraddizione né perdita.
Il viaggio dietro al feretro è stato così strano. Quella strada che non riconoscevo, gratificata di quella luce così diversa da sempre, così inclinata, e insieme così potente. I colori erano diversi, le luci, le cose, i pini, le colline, ogni cosa diversa e bellissima. Il mare, a destra, blu profondo ogni tanto dietro le colline, contro l’azzurro tenero del cielo.
Il viaggio in nave coi parenti, e con la sensazione di essere una di famiglia. Una di casa.
E uscire dalla nave dentro quella luce dorata, sparsa sui muri delle case come una lastra gialla, impregnata nelle molecole dell’aria azzurra, appoggiata su ogni singola foglia, inclinata a metà, frugante fra i rami, cercante fra i cespugli del bosco a svelare il mare là sotto, l’azzurro dentro il buio dei lecci.
Dio che bella l’isola, che bella, una bellezza mozzafiato, sconvolgente e di sorpresa, una bellezza inaspettata e schiaffeggiante, urlata, graffiante, luminosa di quella luce morente e cantante di tardo autunno.
Che bella che bella che bella che bella.
Dietro la bara, in fila. Micol e Stefano, Stefania di Giulio, Giuseppina, zio Elvio. Corteo di parenti. Curva curva per quella strada così nota che a pensarla mi si stringe il cuore di nostalgia.
Lo spazio aumentava. Mano a mano, l’orizzonte si allargava a contenere il mondo.
L’isola era lì, e era quello che era. Era una meraviglia. E c’era. C’era, e anche lei c’era, e questo fatto era qualcosa di meraviglioso. L’orizzonte era così vasto, e comprendeva lei e questa luce che piano piano virava al violetto mano a mano che si abbassava sull’orizzonte. E non c’era contraddizione né perdita.
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