La Giusi è morta di mercoledì. E il giovedì io ero in viaggio, partita per l’Elba, con la sensazione che andare fosse troppo per me, e insieme che fosse l’unica cosa che potevo fare.
Il viaggio di andata è stato disperato. Con il senso della mancanza e dello spaesamento, dell’esser nulla e nessuno, persa in mezzo a un mondo sconosciuto e transitorio.
Sono arrivata a Pisa, alla camera mortuaria.
Lei era lì, dentro la bara, così grande e grossa e gonfia, col naso che sanguinava e la testa tenera senza più capelli, col vestito nero da signora e i piedi scalzi. Una contadina grossa grossa dentro una bara. Una cosa così incongrua.
Le manone delle marmellate una di qua una di là addosso ai fianchi.
Walter che parlava, parlava, parlava, e ogni tanto le asciugava il sangue che colava dal naso. E ti dava l’impressione di non essere davvero lì, che quello che accadeva non lo avesse ancora veramente raggiunto.
La stanza squallida, colla graniglia per terra e i muri nudi, la sedia vecchia con sopra lo scottex per asciugarle il sangue o per soffiarsi il naso.
E io che mi rendevo conto di non aver mai creduto veramente che potesse morire. Anche se sapevo che era così malata, io non ci avevo mai creduto. E ancora in quel momento, davanti a lei lì nella bara, quella era una cosa che non faceva parte di quelle che si riescono a credere.
E poi parlando di quanto aveva sofferto in quegli ultimi 20 giorni, il senso della responsabilità tremenda che portavo. Per quella chiacchierata a Pasqua, quando l’avevo convinta a prendere il sangue e a curarsi fino in fondo. Lei che non ne aveva più voglia. Che aveva solo voglia di sedersi sulla sua veranda e morire in pace. Ma a cosa è servito, pensavo. Solo a farla soffrire così tanto. A farla morire in un letto di ospedale.
Anche se sapevo che c’era la Gaia, sullo sfondo. E che tutto questo era stato fatto per lei. Perché un giorno non potesse pensare che la mamma se ne era andata di sua spontanea volontà. Perché non aveva più voglia di stare con lei. Perché lei era troppo cattiva.
E intanto fuori c’era Pisa e la piazza dei Miracoli, quei miracoli di trina di marmo posati sul verde ultraterreno del prato, e la gente che passeggiava davanti alle bancarelle con gli orologi e le cravatte. E intanto anche lei c’era, lì nella camera mortuaria dell’ospedale. E tutto c’era intanto, il mondo che ruotava lento nella sua scia, l’aria e il traffico, l’Arno e le case, la notte, i bambini, gli infermieri che dicevano che era ora di chiudere e quel puzzo di piscio dentro al cesso. Tutto c’era.
Tutto c’era.
E io che pensavo che fatica aveva fatto lei, che sapeva di dover morire. Stavolta lo sapeva, lo sapeva. Quel suo sparire radicale un pezzo per volta, prima i capelli, poi le mestruazioni, poi la bellezza, via un pezzo via l’altro, e alla fine non si guardava più allo specchio perché diceva la Giusi non c’è più.
E mi sentivo così stupida. Tutto il mio soffrire mi sembrava un capriccio da bambina davanti a quella desolazione e quell’abbandono, a tutta la fatica che lei si era portata sulle spalle senza mai lamentarsi, senza mai fare la vittima. L’abbandono radicale. La solitudine definitiva.
Piano piano ho cominciato a sentirmi a casa. E’ assurdo, ma è così. A casa dentro la camera mortuaria col pavimento vecchio di graniglia e dentro il cesso puzzolente di fine giornata. A casa col Walter logorroico e allucinato. A casa in quella Pisa che poche ore prima, tirando la mia valigia per i marciapiedi ruvidi sconnessi, mi aveva fatto sentire desolata e disperata.
Siamo andati a prendere la Dina, una Dina sconnessa e lacrimante, scomposta, dilagante. Una figura da tragedia. Una donna del sud.
E poi a casa, nell’appartamento dell’AIL che il Walter aveva usato mentre la assisteva questo ultimo mese.
La sera, nel sacco a pelo sul letto di fianco a Dina, al suo corpo grosso e grasso che dormiva o faceva finta di farlo, mi sono sentita esattamente al posto giusto. Sentivo che esattamente quello era il posto dove avrei dovuto stare. Non c’era altro posto buono al mondo.
Il viaggio di andata è stato disperato. Con il senso della mancanza e dello spaesamento, dell’esser nulla e nessuno, persa in mezzo a un mondo sconosciuto e transitorio.
Sono arrivata a Pisa, alla camera mortuaria.
Lei era lì, dentro la bara, così grande e grossa e gonfia, col naso che sanguinava e la testa tenera senza più capelli, col vestito nero da signora e i piedi scalzi. Una contadina grossa grossa dentro una bara. Una cosa così incongrua.
Le manone delle marmellate una di qua una di là addosso ai fianchi.
Walter che parlava, parlava, parlava, e ogni tanto le asciugava il sangue che colava dal naso. E ti dava l’impressione di non essere davvero lì, che quello che accadeva non lo avesse ancora veramente raggiunto.
La stanza squallida, colla graniglia per terra e i muri nudi, la sedia vecchia con sopra lo scottex per asciugarle il sangue o per soffiarsi il naso.
E io che mi rendevo conto di non aver mai creduto veramente che potesse morire. Anche se sapevo che era così malata, io non ci avevo mai creduto. E ancora in quel momento, davanti a lei lì nella bara, quella era una cosa che non faceva parte di quelle che si riescono a credere.
E poi parlando di quanto aveva sofferto in quegli ultimi 20 giorni, il senso della responsabilità tremenda che portavo. Per quella chiacchierata a Pasqua, quando l’avevo convinta a prendere il sangue e a curarsi fino in fondo. Lei che non ne aveva più voglia. Che aveva solo voglia di sedersi sulla sua veranda e morire in pace. Ma a cosa è servito, pensavo. Solo a farla soffrire così tanto. A farla morire in un letto di ospedale.
Anche se sapevo che c’era la Gaia, sullo sfondo. E che tutto questo era stato fatto per lei. Perché un giorno non potesse pensare che la mamma se ne era andata di sua spontanea volontà. Perché non aveva più voglia di stare con lei. Perché lei era troppo cattiva.
E intanto fuori c’era Pisa e la piazza dei Miracoli, quei miracoli di trina di marmo posati sul verde ultraterreno del prato, e la gente che passeggiava davanti alle bancarelle con gli orologi e le cravatte. E intanto anche lei c’era, lì nella camera mortuaria dell’ospedale. E tutto c’era intanto, il mondo che ruotava lento nella sua scia, l’aria e il traffico, l’Arno e le case, la notte, i bambini, gli infermieri che dicevano che era ora di chiudere e quel puzzo di piscio dentro al cesso. Tutto c’era.
Tutto c’era.
E io che pensavo che fatica aveva fatto lei, che sapeva di dover morire. Stavolta lo sapeva, lo sapeva. Quel suo sparire radicale un pezzo per volta, prima i capelli, poi le mestruazioni, poi la bellezza, via un pezzo via l’altro, e alla fine non si guardava più allo specchio perché diceva la Giusi non c’è più.
E mi sentivo così stupida. Tutto il mio soffrire mi sembrava un capriccio da bambina davanti a quella desolazione e quell’abbandono, a tutta la fatica che lei si era portata sulle spalle senza mai lamentarsi, senza mai fare la vittima. L’abbandono radicale. La solitudine definitiva.
Piano piano ho cominciato a sentirmi a casa. E’ assurdo, ma è così. A casa dentro la camera mortuaria col pavimento vecchio di graniglia e dentro il cesso puzzolente di fine giornata. A casa col Walter logorroico e allucinato. A casa in quella Pisa che poche ore prima, tirando la mia valigia per i marciapiedi ruvidi sconnessi, mi aveva fatto sentire desolata e disperata.
Siamo andati a prendere la Dina, una Dina sconnessa e lacrimante, scomposta, dilagante. Una figura da tragedia. Una donna del sud.
E poi a casa, nell’appartamento dell’AIL che il Walter aveva usato mentre la assisteva questo ultimo mese.
La sera, nel sacco a pelo sul letto di fianco a Dina, al suo corpo grosso e grasso che dormiva o faceva finta di farlo, mi sono sentita esattamente al posto giusto. Sentivo che esattamente quello era il posto dove avrei dovuto stare. Non c’era altro posto buono al mondo.
Nessun commento:
Posta un commento