venerdì 19 ottobre 2007

Scrivere. Che roba è?

La struttura.
Per anni ho lavorato sulle sensazioni. Ho scoperto vie nuove, molto ricche, piene di germi pronti a germogliare, soprattutto grazie a Bacon e alla pittura in generale. Ho aperto parti di me che non conoscevo, e mezzi nuovi di cui non immaginavo l'esistenza. Il diagramma, trasportato dalla pittura alla parola, ha grandi potenzialità. Si tratta di vedere come può funzionare in una struttura più ampia, in qualcosa di lungo e articolato.
E qui sta il punto, ora.
La struttura.
E' quello che mi manca. Lo so. E con Cezanne so che le sensazioni da sole non bastano. Ci vuole anche la geometria. O con Bacon, non basta il diagramma. Bisogna uscire dalla catastrofe. Limitare il diagramma a parti ben precise.

Il diagramma è ciò che ti permette di saltare il linguaggio. Di uscire dalla gabbia imperfetta del linguaggio, che nomina senza poter toccare, che separa, allontana dalla verità. Che aliena. Proprio perché fa oggetto di ciò che nomina, lo separa da te.
La catastrofe del diagramma opera un salto radicale, lacera veli, strappa codici, contorce il senso codificato. Ti butta oltre il codice. Oltre il linguaggio. Tuffa le mani nel mondo. Tocca senza parlare.
Catastrofe salvifica che rivela il cosmo. Lo svela dagli strati cornei in cui il linguaggio lo ha imprigionato. Strappa, lacera, taglia, macella le convenzioni.
Come un bambino. Il cosmo come un bambino. Toccare il cosmo con le dita, assaggiarlo con la lingua, spalmarlo sulla pelle.
Come un bambino.
Il cosmo si rivela.
Riconoscere le sue enormi vaste leggi. La struttura che nasce proprio da lì. Struttura possente e semplice, come grossi muri di pietre e sasso.
Come un bambino.
Tornare al raccontare, ma con la sapienza di lacerare il velo.

Come conquistare una struttura. Una struttura che abbia senso ora. Qualcosa che funzioni in questi giorni arsi di inizio millennio, in queste terre frantumate dove ogni pietra miliare è stata presa a martellate fino a ridurla in polvere.

Ritornare indietro.
Tornare alle origini.
Tornare a Boccaccio, a Dante, a Shakespeare. Tornare ai Greci.
Tornare alle origini. E ripartire da lì.

Boccaccio.

Ci si dimentica che tutta l'armonia e il cosmo composito di Boccaccio nascono dalla peste.
La peste apre il libro, coi suoi gavoccioli e coi becchini, con le fosse comuni, il lezzo della morte, i cadaveri ammucchiati fuori dalle porte, le donne che aprono le loro nudità agli uomini nella malattia, le macchie nere sulla pelle e il sangue dal naso.
L'origine e la legittimazione di tutto il libro sta lì. In quell'odore acre di malattia e di cadavere.
E da lì, proprio dall'occhio di quel ciclone furioso e senza discernimento, che uccide grandi, mezzani e piccioli insieme coi porci, proprio dal colmo dello scempio, nasce un ordine armonioso, ingemmato, sereno, liquido e limpido come le acque delle fontane attorno a cui la compagnia si raduna.
Acqua attraverso cui ti tuffi nel mondo, nuoti in tutte le direzioni, e vedi ogni cosa chiaramente.
Questa visione chiara, questa licenza, per così dire, di vedere, e di nominare senza reticenze, è data dalla peste. La rottura di ogni regola e di ogni velo conveniente, e convenzionale, è legittimata dalla peste. Si può parlar forte e chiaro, in mezzo a tanto scempio. Non ha senso nascondere ciò che è così chiaro. Così evidente.
Ma anche l'ordine nasce da lì. La ricerca accurata, tenace, pervicace di armonia, simmetria, quiete, bellezza. Proprio dal cuore del caos e del disfacimento.

Avere il coraggio di cercare ordine e armonia in mezzo al caos e al disfacimento.
Avere il coraggio di guardare bene in faccia morte e orrore e cantare la gioia e il cosmo.
Avere il coraggio di uscire dalla catastrofe.
Vedere il cosmo.
Ciò che scompare, ciò di cui non siamo più capaci di vedere i contorni.
Il cosmo. Qualcosa di ordinato secondo sue enormi leggi. Secondo leggi di cui noi siamo solo una piccolissima parte. Saper vedere questo, che sta diventando invisibile agli occhi, alla mente, al cuore.
Non dimostrare. Solo mostrare.
Solo cantare.

Sfuggire alla tentazione di voler dimostrare qualcosa.
Non voler trasmettere nessun messaggio.
Solo far da prisma che scompone la luce in tutti i suoi colori. Solo far da acqua limpida che mostra ogni suo pesce.
Solo cantare.

E poi bisogna avere il coraggio di raccontare una storia.
Il coraggio di raccontare un filo, di seguirlo lungo l'arazzo dall'inizio alla fine.
Uscire dal caos.
Boccaccio ti può insegnare. Le sue storie sono gemme in una collana.

Boccaccio. Armonia e bellezza. Soave bellezza, quieta e ordinata.
"Ma per ciò che le cose che sono senza modo non possono lungamente durare..."
"Acciò che io prima essemplo dea a tutti voi, per lo quale di bene in meglio procedendo, la nostra compagnia con ordine e con piacere e senza alcuna vergogna viva e duri quanto a grado ne fia..."
"Dalle quali cose, perciò che belle e ordinate erano, rallegrato ciascuno..."

Boccaccio. La lingua.
Preziosa come una gemma.
Eppure dotata di ogni registro, dal più alto al più basso, giù giù fino all'osceno.
Ah, imparare quella lingua ricca e sonora, quella pasta di mandorle che riempie la bocca, quel soffitto affrescato di festoni di limoni e frutta, e l'odor di cucina e il tanfo delle stanze buie e delle latrine, e poi le limpide chiare acque dei giardini e delle fontane, e il sesso goduto senza colpa, come un dono di dio, festoso e gioioso, fatto di carne e pelle calda profumata di olio di rosa.

Imparare a usare ogni registro. Ogni parola, antica e nuova, piegarla come ferro caldo all'uso voluto.
E, qui e là, lasciare che le parole viaggino per conto loro. Che invadano ogni cosa, a festoni rubescenti.
Ma attenta. Che chiunque abbia occhi possa ben vedere.

Cos'hanno in comune Boccaccio, Shakespeare e Melville.
Che ognuno di loro ha usato strutture già note da tempo piegandole con libertà e forza in modo completamente nuovo.
Il più libero di tutti è forse Melville, che spazia da un genere all'altro nel giro di una pagina, dall'enciclopedia alla commedia alla tragedia al salmo biblico. Totalmente, completamente libero da ogni obbligo. Capace di riutilizzare i mattoni ricevuti da altri per costruire un edificio totalmente nuovo.
E poi Shakespeare.
La totale libertà di raccontare ogni cosa proprio com'è. Viva. Proprio così com'è. L'uso di una lingua musicale eppure pietrosa, eppure densa di corpo, eppure attaccata alle cose, facente parte delle cose, tutt'uno.
L'audacia. Raccontare cose mirabolanti, grandi, enormi, di cui non si scorgono i contorni, eppure saperle nominare. Senza diminuirle, senza ucciderle. Perché mostra, e non dimostra. Perché lascia a ciascuno la propria grandezza e la propria umanità. Tutte le sfaccettature, i meandri bui, le lame di luce tagliente.
La lingua. Quella cadenza di musica, le parole grosse e oscene, le parole musicali, i gioielli. Ci sono veri gioielli nei suoi versi, incastonati all'improvviso in una riga. E poi il coraggio di nominare ogni cosa. In tutta la sua granitica, carnosa, pastosa essenza. Terribile essenza. Magnifica essenza.
Ogni cosa proprio così com’è. Non come dovrebbe essere. Proprio com’è.
Non so cosa sia la mia scrittura ora.
Sento che deve essere dentro alle cose.
So che deve toccare le cose con sincerità. Ma anche con grande semplicità.
Che chiunque abbia gli occhi possa ben vedere.
E nello stesso tempo deve avere un filo conduttore. Un corso, una via. Non deve espandersi senza forma, in ogni direzione, ma deve seguire la strada che le è prefissata.
Deve esserci una struttura. E insieme la vita. Come le ossa sotto la carne.

Non so cosa sia la mia scrittura ora.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Riflessioni molto interessanti. Anch'io spesso mi interrogo sulla struttura della scrittura. Forse perchè ho un problema in genere con ogni struttura, perchè la struttura si fonda su basi matematiche e io ho decisamente un problema con la matematica...
Ma c'è forse anche una struttura intima, dentro chi scrive. Forse quella è già portante, forse basta seguire il pensiero creativo, e lui da solo trova la sua struttura... chissà. :-)

Fiorenza ha detto...

Cara, carissima Sabrina,
laboratorio.
Pratico, concreto. Smontare i mattoni altrui per rimontare un nuovo edificio. Uno scambio, un prestito. Di più. Un nutrirsi dell'altro fino a farlo diventare sé. Finché quel che hai imparato da lui o lei non sia diventato le tue ossa e i tuoi muscoli.
Sento che ho bisogno di ampiezza e respiro. Larghezza. Vastità. Una struttura ampia, come una cattedrale fatta di rami e di foglie. Come in quei quadri di Cézanne, sai, quelli delle bagnanti nel bosco. Ecco, quello slancio verticale eppure quella carnosa adesione alla terra. Quell'essere tutt'uno con la terra.
Ah, non so come sarà. Ma sento come vorrei che fosse.
Lavoro, lavoro.
Quieto e silenzioso.
Un abbraccio, Sabrina cara.
Fiorenza